pensieri del genere

Chissà cosa pensa una donna quando rimette in ordine i cassetti, oppure quando cucina, rifà i letti o pulisce il bagno. Credo esista un pensiero legato al genere, all’educazione e che questo abbia effetti diversi anche su ciò che si sta facendo. Quando metto in ordine il mio pensiero si perde sulle cose più che sull’imperativo di fare ordine, diciamo che al massimo faccio largo. Quando cucino sento invece la necessità di lasciare una mia impronta su quello che sto preparando, emerge un fare che non segue le ricette pedissequamente, anzi aggiunge e toglie immaginando un effetto finale che mostri una cosa e ne faccia sentire una leggermente diversa. Lo stesso mi accade se offro un vino, molto spesso preferisco vini che non conosco, ma che mi ispirano. Mi piace condividere la scoperta. Una vicenda a parte è la pulizia del bagno, il togliere polvere o rifare i letti, qui la testa si concentra e cerca di raggiungere il risultato nel minor tempo. Mentre negli altri casi è l’ego che prende il governo e si diverte, nel pulire è la necessità del controllore che guida: pulizia, efficacia e niente divagazioni.

Se penso al piacere di fare, questo si concentra sulle attività in cui scelgo, le altre diventano necessità. E me ne accorgo dall’uso del tempo: infinito nel riordinare i cassetti, le scatole, i libri, i giornali, la musica. Ben delimitato nel cucinare. Se aspetto ospiti cerco di calcolare come arrivare alla cena e sedermi con loro, quindi il tempo parte lento e poi scivola nel frenetico quando si avvicina l’ora dell’arrivo.  Tempo distratto, invece, e costretto nel pulire, ovvero cerco di uscirne al più presto, ma senza impormi limiti, se non il risultato.

E cosa penso? di tutto, tant’evvero che mi perdo se ciò che faccio mi interessa, il tempo non è un problema e il pensiero scivola su persone vicine o lontane, fatti, oggetti, pezzi di memoria, cose da fare o da scrivere, telefonare, meditare. Mi fermo, riprendo, metto da parte, lascio emergere domande insolubili sull’esistenza, la mia, mi comprendo e perdono. 

E, infine, mi chiedo cosa pensano le donne quando fanno i miei stessi lavori, riordinano i cassetti, cucinano o aprono le scatole che attendono da tempo di essere riaperte. Chissà…

la necessità

Tra tutte le angosce quella delle cose da fare, è la più subdola e paralizzante. Ti prende man mano, e sale dalle visceri finché la gola ne è stretta. E’ facile scivolare in una catatonia da rimando, con sensi di colpa crescenti e verso una fine vista come liberatoria: ho tradito la fiducia, verrò castigato, me lo meriterò, ma almeno sarà finita.

E’ una paura senza dimensione reale, e come tutte le paure ha una percezione distorta delle dimensioni, ma come dirlo a chi sente che deve fare qualcosa e non ne ha voglia, non lo vuole più fare, e se lo farà, dovrà coercire se stesso da sé. Non mi intendo di queste cose, ma credo che sia uno scontro tra super io ed ego, dove il secondo cerca di rifiutare qualcosa che gli costa e gli toglie piacere, od almeno la possibilità di averlo.  Il non rispondere viene sentito come minaccia all’integrità. Qualunque integrità, sia essa l’immagine o il corpo, e ne nasce una fatica, un dover fare, tanto che alla fine per uscirne, si sacrifica qualcosa, o noi stessi oppure chi attende qualcosa da noi. Quasi sempre nella percezione distorta del dovere si nasconde una domanda: perché devo farlo? E nella risposta entra in campo il giusto e l’ingiusto, il ruolo e la finzione d’essere davvero i protagonisti. Non essere agiti da, ma agire, fare, perché questo dà senso alla nostra presenza, come dovessimo giustificarla aggiungendo necessità all’essere.

Sappiamo benissimo che il sistema si aggiusterà da solo, anche senza di noi, ma quel noi conta finché ci siamo. Conta per noi. D’altronde è connaturato con l’idea sociale che stare assieme comporti una riduzione delle attese, il ridimensionamento della propria dimensione. Difficilmente si pensa che l’eccesso possa essere la regola ed in realtà, anche violando la costrizione del dover essere, si resta all’interno di questo corpo che tollera, ammette la trasgressione purché non si violi il meccanismo. L’apologo di Menenio Agrippa illustrava bene a chi era più sfruttato la sua dipendenza. Ma oltre il funzionamento sociale si deve pur dire che alla costrizione si aggiunge molto di personale, e, per aspirare ad una qualche felicità di sé, una griglia di ciò che è davvero importante e di ciò che lo è meno, si impone. E’ quando non se ne può più, quando la solitudine sembra il luogo per riposare, ed in realtà è il rifiuto degli obblighi, che l’urgenza vera è fermarsi, per capire ciò che conta.

Un metodo usato in grandi aziende statunitensi, per verificare se una persona serve davvero, è il viaggio premio. Una lunga vacanza regalo, e se nessuno si accorge della mancanza, al ritorno l’ indispensabile lo sarà molto meno. Se ne potrà fare a meno. Un metodo da caimani, ma se il principio si autogestisse, non ne verrebbe fuori un rapporto diverso con la società più prossima ? Togliere qualcosa di meno necessario, ogni giorno, abituare l’ambiente a provvedere a sé; il rapporto tra membra e corpo c’è ancora, ma è più libero e quieto, con pochi sensi di colpa. Per evitare il burning out, gli stessi che lo causano, lo consigliano: togli ogni giorno un 20% di non necessario, ma dammi integra ed efficace la tua prestazione. E’ sublime carnefice colui che riesce a convincerti a fare tutto e sempre di più, togliendo il non necessario alla prestazione: il massimo del risultato senza rivolte e con il massimo dell’approvazione. Questi schemi sono ben presenti nel lavoro e nella famiglia, tanto che la persona si pensa realizzata se riesce a fare tante cose, in poco tempo, così potrà farne altre e riceverne ancor più approvazione. La domanda terribile che viene soffocata nella fatica è: ma io dove sono?

Quando si fa un viaggio lungo, da distante molto appare ovattato, restano le cose davvero importanti che ci portiamo appresso ed il mondo, spesso con nostro stupore, va avanti comunque, tanto che al ritorno lo troviamo cambiato, ma anche uguale, cioè tutte le funzioni essenziali hanno proceduto nell’indifferenza nostra, ciò che è uguale è l’attesa di chi dipendeva da noi. E noi ci diamo da fare per recuperare il tempo trascorso, come si dovesse chiudere uno jato che ci riguarda.  Forse ci rassicura avere un’importanza, sentirsi necessari, ma in realtà riprendiamo un posto in un vagone che è andato avanti per suo conto. Capirlo ci darebbe la nostra vera importanza e forse un po’ di tempo per noi.

Anche in una struttura complessa si può agire diversamente; le supplenze, il darsi importanza attraverso il marginale, possono essere ridiscusse. Il se non lo faccio io non lo fa nessuno, è proprio vero? E se non lo fa nessuno è davvero necessario? Ora sembra tutto necessario, forse perché  non si sa dove andare altrimenti e noi ci facciamo davvero paura quando abbiamo tempo senza necessità di rispondere ad un ruolo.

In questi giorni, in cui vuoto cassetti, strappo biglietti da visita scaduti, comincio a far liste di ciò che faccio, non di quello che devo fare o farò; vederlo descritto fa uno strano effetto perché troppo spesso si agisce in automatico. Mi chiedo fin dove sono io e penso che bisogna discriminare e prendersi tempo, lasciare spazio alla necessità di avere il suo nome.

Forse se la necessità riprende il suo posto si capisce a cosa serviamo davvero.