Le mattine iniziano in un inquietante cielo azzurro privo di nubi, il sonno si è consumato in artificiali raffrescamenti ed ora inizia il cammino tra aria calda, condizionamenti, aria rovente. Ma è mattino, i fantasiosi nomi delle ondate anticicloniche punteggiano i brevi riposi di chiacchere all’ombra dei portici. Non si sta ancora troppo male, i muri hanno addosso il fresco della notte, sono ancora amici: se l’aria non è gonfia d’aliti rotondi di calore, si può camminare senza sudare troppo.
Andare, lavorare, pensare. Lo facciamo tutti, non ci pensiamo più di tanto. E’ questione di essere in posto anziché in un altro e se siamo lì, il caso irrompe violento e muta chi prima del fatto, era immerso nella sua vita, nelle abitudini, nei pensieri usuali e di colpo lo espropria della sua realtà. Mi chiedo perché nasca una discontinuità così violenta, per noi che consideriamo la continuità come la freccia del tempo. Del nostro tempo normale. Siamo noi sbagliati nelle sicurezze, precari che ricacciano il pensiero della precarietà?
Quel 2 agosto di 32 anni fa, seppi dall’ autoradio della strage alla stazione di Bologna, era caldo, intorno avevo la campagna bella del delta del Po. Correvo piano per godere di ciò che vedevo e tutto di colpo divenne marrone sporco di polvere e afa e angoscia. Mi fermai, nel bisogno di capire, di fare. A quei tempi sembrava sempre necessario reagire. Gli attacchi si percepivano come rivolti a tutti: bisognava esserci, essere uniti. Ci sentivamo un corpo, che pareva unico nei momenti gravi, con mille divisioni ed indifferenze, come adesso, solo più unito. Bisognava fare qualcosa, la piazza, il grido, il silenzio, la rabbia. Bisognava. Attorno c’erano campi di granoturco, pannocchie e segni di trebbiatura, stoppie. Vedevo il marrone, l’oro e il verde onnipresente, come se la natura fosse altro da noi, immersa nell’estate sua diversa dalla nostra: summertime.
Stamattina ho sentito una testimonianza che diceva: per dimenticare, per seppellire, abbiamo bisogno di verità. C’è qualcosa di ancestrale in questo perdono che si esercita a partire dal colpevole, non può esserci oblio senza giustizia, non può esserci giustizia senza verità.
Non so perché l’estate eccitasse così tanto i golpisti e gli attentatori, era d’estate, per loro, che la coscienza sembrava ottundersi? Non capivano che così facendo, venivano rigate le coscienze, e segni indelebili restavano, tanto da reagire, reagire sempre? Comunque fosse, qualcuno che credeva nella morte, non nella vita, la progettava per insegnare ai vivi, la paura. Ed il coraggio, allora, era vivere con la paura, non soggiacerle, reagire.
Oggi si reagisce meno, forse non ce n’è bisogno, oppure ci siamo abituati a più sottili e molto meno cruente manipolazioni di libertà e verità. Ma di quegli anni, di quelle estati mi è rimasta l’inquietudine, la sensazione di essere oggi meno forte di allora, assieme al pensiero che la verità dev’essere chiesta da molti, incessantemente, per emergere, per fissare una memoria e solo poi seppellire un’epoca, un’ingiustizia atroce.
Oggi non è solo caldo, è il 2 agosto .