orsetto mangia e dormi

Si parla del tempo, di ciò che si vede (preferibile), di ciò che si sente (meglio non eccedere e farlo solo tra intimi, perché non di rado si è noiosi), di affari, di lavoro, di politica, ecc.ecc. però delle cose necessarie per vivere non si parla mai. Volevo intitolare queste parole: filosofia del bidè, ma non fa fino, eppure gli equilibri della nostra vita si reggono su quanto accade in luoghi riservati, con pensieri altrettanto riservati. Bukowsky era un grande nell’esporre l’altro lato della luna, mica posso rivaleggiare, allora le mie considerazioni si fermano sul destino del cibo e poco più.

Comunque la si senta, la serenità sul destino del cibo è un problema dell’umanità, specialmente dove di cibo ce n’è troppo, dalle altre parti la ricerca dello stesso è talmente spasmodica che non c’è tempo per pensare alla sua fine. Se noi siamo ciò che mangiamo, in senso di umore, abitudini, soddisfazione e non solo, dobbiamo concludere che il bilancio personale tra entrate ed uscite dell‘attività, è un fatto desiderato, personale, importante, da programmare accuratamente nel budget giornaliero ed attuare in tranquillità. Almeno si spera, perché il luogo della contabilità sopraddetta, soprattutto quando ci sono bambini in casa, ha più ingressi ed uscite di un saloon.

Invece servirebbe raccoglimento per meditare su ciò che grava sul bilancio, sulla congiuntura, sui consumi e ritrovare un equilibrio, una forma canonica, quello che la suora di “foto di gruppo con signora” elevava a modo di interpretare la persona e financo lettura del suo destino futuro. E questo equilibrio è talmente personale che, pur parlandone con la dovuta discrezione, resta una contabilità segreta di cui solo l’interessato conosce vincoli, difficoltà, usi e importanza. Insomma un’economia individuale, non di rado ansiosa, difficile, che spesso viene assunta a specchio delle difficoltà del Paese, tanto che si dice un paese asfittico o di m…, proprio perché mette assieme la legittima attesa con ciò che accade davvero. Si può dire che questo rapporto interiore sia la madre di tutte le attese e di tutte le impazienze, almeno dal momento in cui si è davvero integrati nella società, ma di questo si parlerà poi.

Il bidè è lo strumento contabile della transizione esterno/interno, una sorta di prospetto illustrativo sulla accettabilità del bilancio nel più vasto ambito della società e sana quel rapporto difficile, compulsivo e segreto, rimette in ordine le apparenze contabili, si potrebbe dire che rinobilita il corpo dopo la transazione diradando le oscure pulsioni che, da tempo immemore , facciamo coincidere con questa funzione oltremodo necessaria. Quindi il bidè è il traite d’union tra un prima e un dopo, come quei prospetti che fanno luccicare le società quando vogliono essere ben viste dagli investitori, quindi ci riporta ad un ruolo pubblico, insomma ci rimette in società. Riequilibrate le contabilità interiori, il rapporto societario, corpo, mente, umore, rassettate le apparenze, torniamo tra gli altri. Se il lavoro sporco è stato fatto ci attende un luminoso avvenire, altrimenti il bidè è solo un pallido palliativo che imbelletta l’impresa, ma non la rende tranquilla e porta nostalgia dell’infanzia, dei tempi in cui questi problemi non esistevano e l’orsetto mangia e dormi era pienamente inconsapevole, cioè felice e sociale oltre ogni limite contabile.

E qui riprendo il ragionamento sull’età anarchica sopra accennato, un’era felice senza rudimenti di conto personali,  che conosce la sua prima spinta verso una disciplina di bilancio proprio a partire da quella funzione contabile. forse la vera spinta verso l’indipendenza, prima personale e poi economica, e quindi contiene il germe dell’autosufficienza e del pensiero singolo, insomma il cogito regolato, nasce quando ci viene insegnato a trattenere, regolare, lasciar andare, fluire ed essere soddisfatti dei risultati. C’è un’educazione così incidente che attiva volontà, intelligenza, muscoli, sistema simpatico, spranga porte nella mente (alcune non verranno aperte mai più, neppure dall’interessato), instilla meccanismi di vergogna (il fallimento, ovvero la perdita assoluta dell’immagine esteriore, quindi devastante per quella interiore), modifica l’architettura dei bisogni, l’immagine  e la funzionalità del produrre, ecc. ecc. ? No, questo dimostra la forza dei numeri, e non solo, e quell’epoca in cui si perde la prima innocenza, la popò diventa cacca e poi si trasformerà in m…., fa nascere un rapporto con il proprio corpo che in nessun’altra parte riceverà tanta disciplina ed impossibilità di derogare le regole. Alcuni ipotizzano lo stato di natura, un’anarchia perenne che prescinda da luoghi, abitudini, regole, tempi. Tracce di questa oscura confraternita si trovano ovunque, segno di una sua diffusione poco studiata, spacciano, i congiurati, i prodotti propri come attività animali, destituite quindi da responsabilità, ma non cadete nel tranelli, uno spettro si aggira per l’europa e dopo aver colpito non si fa il bidè.

Ma torniamo ai buoni cittadini, c’è un rispetto, una buona norma che dovrebbe essere instillata assieme all’educazione contabile interiore, ovvero: almeno in quei momenti di meditazione, di riesame della propria vita recente, bisogna lasciare l’individuo con se stesso, farlo riflettere sulle difficoltà contingenti, portarlo verso una sana pianificazione del suo futuro più intimo, insomma lasciatelo c…. in pace e tutti ne avremo benefici.

la brioche

 

Il gusto atteso non c’è. Sorpreso, mi fermo, guardo attorno. Vedo briciole sui tavolini tondi, persone che parlano fitto, tranquillità e nervosismi mischiati. Sono solo, mi stendo sulla sedia appoggiando la schiena con voluttà di tempo. La brioche attende dopo il primo morso, forse troppa avidità ha deluso. Bisognerebbe sempre usare l’educazione, i tocchetti sono funzionali al gusto ed alla vista. Ma questa brioche la conosco bene, sfoglia, mandorle in superficie, ripieno di mandorle all’interno. Sapida, da ingordigia, una riga di zuccheri di canna che la penetra, in una fusione femminea di gusto e voluttà. Una voglia, non un’abitudine.

Guardo ed ascolto le voci attorno. La Dandini, il parlamento, Fini. Poco oltre, un complimento a voce bassa, forse un invito. Acciottolio di tazze in attesa di lavastoviglie. Che banalità l’acciottolio, moriremo di banalità, di parole vere senza cuore. Parole che fanno bene solo a noi, da raccontare perché ci riportano alla nostra infanzia, alla maestra, alle fatiche sui quaderni dalla copertina nera. Parole personali, poco utili al presente. Emerge il ricordo del primo disastro scolastico, quella parola cielo che perdeva la i, e veniva riscritta e cancellata con quella gomma azzurra e dura, fino a bucare la pagina. E allora le parole scritte con pennino ed inchiostro erano state inondate da lacrime. Sbavate, disperate e senza futuro. Come quel cielo che si vedeva dai finestroni altissimi e che non aveva la i, ero sicuro che l’avesse nascosta, anzi no, l’aveva persa per sempre e non voleva che lo sapessi.

Torno a guardare attorno; nell’angolo una donna guarda senza vedere. In alto, sopra le scatole di cioccolatini, non c’é cielo, solo pensieri. Poi si scuote, riporta in viso sulla tazza. Si atteggia, soffia il naso, mi guarda. Ricambio e non abbasso gli occhi. Non lo faccio mai. Torna in sé, si occupa della borsa.

Stacco un pezzetto di brioche, lo gusto sul palato, delude, non risponde al ricordo. Forse le mandorle poco tostate, o la sfoglia non lievitata a sufficienza, che così s’appiccica e muore nel gusto. Chissà.

Entrano due coppie. Ridono, fanno chiasso per farsi sentire. Parlano del fine settimana, i progetti, gli amici da invitare. Ricordi di scorribande autunnali mi affollano la testa. Le passeggiate con i piedi immersi tra le foglie di castagno, il viso rovente dall’aria, il camino, le solite canzoni cantate in coro. Allora erano vere ed ora sono patetiche. Perché ci ricaschiamo? Quanto bisogno abbiamo di compagnia, di calore, di pensieri domestici? Già, anche la rivoluzione ha una cucina e una lavatrice.  Adesso vorrei la sera, interrompere il flusso dei ricordi, con la sua malinconia esterna e certificata, ma sono le 10, il sole è pieno di odori mattutini. Non è tempo. Non è mai tempo. Ancora un boccone di brioche: decisamente deludente. Lascio il campo, non è più aria. C’è bisogno d’altri sapori per oggi.

Tornerò, si torna sempre anche nel campo dei delitti altrui.

 

la solitudine del tramezzino nella sera

A sera, nei bar di terza categoria, giacciono senza speranza mezze uova sode con acciughe iridescenti, sarde fritte gelate, saor sepolto di cipolla, tutto moribondo, ma la tragedia è a lato dove un pietoso drappo bianco cela i morti del pomeriggio: i tramezzini. L’evoluzione delle ex-osterie del pane e salame, degli spuncioni, si è consumata con l’avvento del toast e del tramezzino. Prima questi erano luoghi tranquilli, da bestemmie e “ombre”, luoghi per vecchi in attesa del coma etilico, per giovani apprendisti bevitori, per giocatori incalliti di briscola e scopa. Il tramezzino è giunto come soffio di modernità autoctona. Da preparare sul bancone al mattino, esercitando improbabili fantasie, è l’attesa operosa mentre le brioche scongelano. E dalle 10 il tramezzino vive, iniziando a circuire il possibile adottante.  Si offre prima neghittoso, poi consapevole-disperato del tempo e della sorte, diviene un ammiccante triste. Il tramezzino, orfano del mattino, nel pomeriggio mostra vergogna della propria gialla impudicizia di maionese, se la mattina traboccava sensualità, adesso cola sul tonno frantumato, sulla mozzarella pretenziosa di vegetarianità, nella lattuga prorompente. L’osceno si aggira per la vetrina. Ma dove vanno a finire i tramezzini nella notte? Domanda esistenziale del tramezzino orfano che guarda le luci della sera abbattersi su di lui. Non c’è vita oltre le 18, forse l’orgia dell’happy hour potrebbe consentirgli una morte dignitosa, ma qui siamo fuori dai circuiti dello spritz e alle 20 si chiude. Il tramezzino lo intuiva, già il mattino, d’essere nato nel posto sbagliato. Giovane senza amore, la sua depressione è cresciuta con le ore, finché, ha sollevato gli angoli ed è dilagata la tristezza attorno. Si è chiesto perché è nato, la ragione della sua vita disgraziata e senza costrutto. E lo chiediamo anche noi, che aderiamo al movimento per il controllo delle nascite dei tramezzini nei bar di periferia. Basta tristezze nella sera, baristi senza giudizio, mettete al mondo chi avrà un futuro, astenetevi, controllate il vostro coito con il sapido facile dei bidoni di salse. Guardate i vostri clienti, vi sembrano persone da tramezzini queste? Hanno fauci e fami arretrate, la curva del benessere si misura sulle pance, non sono adatti a cosine fru-fru. Ritornate al filone di pane croccante, all’affettatrice, alla latta del tonno gocciolante, alla cipollina. Preparate quello che mangereste anche voi.

Per noi pane e salame, grazie.

 

la birreria

In estate  in città, la sera si andava in birreria. Anche per noi bambini, c’era un sorso di birra con l’anice e la spuma nera con pevarini o i zaeti. Biscotti al pepe i primi, con farina di granturco, pinoli e uvetta, i secondi. Un biscotto, non un vassoio!

La birreria era vicino al palazzo di Ezzelino il balbo, in pieno medioevo cittadino. Al centro c’era un banco quadrato di marmo e poggiapiedi d’ottone. Salendo sul poggiapiedi si potevano mettere i gomiti sul freddo del marmo tra i laghetti di birra spanta. Ed immergersi tra le spine lucenti, i grossi bicchieri col manico, la schiuma, i barili di legno e l’odore dolciastro/amaro dell’orzo e del luppolo. Uno spettacolo di odori, tatto e gusto per tutti cinque i sensi.

Mia nonna chiaccherava con le amiche, noi giocavamo sulle piazze. Secoli di storia ci guardavano mentre noi ignari, li adoperavamo con gessetti poco rispettosi. A settembre, con la macchina del nonno, saremmo andati a Pedavena, alla birreria. Sarebbe stata una giornata da ricordare fino alla primavera successiva. Appena arrivati, i grandi cercavano posto  all’ombra, sui grandi tavoli di pino, poi salsicce e salumi, spezzatini e patate, in quella cucina austro ungarica che i più vecchi consideravano parte dell’identità, mentre ridevano, commentando il secolo che correva. Noi piccoletti, curiosi dei daini in gabbia, delle montagne incombenti, del verde assoluto del parco, avremmo sciamato in una corsa senza fine.

Ovvero una fine ci sarebbe stata, verso le quattro con pane e soppressa, poi ancora due ore di gioco prima del ritorno e il sorso di birra e anice.

Quando l’ho chiesta l’ultima volta, il barista cinese non capiva, poi dal retro è venuto un mio coetaneo, che m’ha guardato, dicendo: la bevo anch’io, era trent’anni che non la sentivo chiedere.

 

ottoemmezzo

La sera ti assale alle ottoemmezzo, 

è questione d’inutilità del sedersi, 

di profumo di cibo, stoviglie pulite, 

e non sei più il bimbo che dice no,

alla sera che entra dalle finestre, alle rondini che gridano, 

ai rumori che graffiano intonaci alle case vicine. 

E’ la compagnia che salva, 

vociando tra campari, e vini pretenziosi, 

coalizzata in palestre colme di solitudini sudate.

 

Ottoemmezzo è l’ora dei richiami, 

dal gorgo emerge il tuo, ancestrale, rotondo come l’abbraccio, 

che fugava la paura.

Terribile quest’ora, che rende i conti, la paura di chi manca, di chi ritarda, 

e scocca.

Ottoemmezzo è la sera che ammannisce lusinghe, insostenibili al giorno, 

che detta il tempo ai metronomi della notte, 

è il grido trattenuto del richiamo,

del presente,

di ciò che è stato,

di ciò che s’è perduto, 

è l’ora che fa incespicare su di noi, così incongrui da salire e scendere senza scopo.  

Tutto avviene prima, tutto dopo, solo la nostalgia è un adesso in attesa d’essere rimosso;

alle ottoemmezzo.

 

tartare

 

Non ho paura di ciò che s’annida nella carne cruda.

Della consistenza elastica, della peluria tenue,

del lucore e della tenebra, io non ho paura.

Se parli, guardo il bianco tra le labbra,

mentre corri,sento l’altra tua metà,

e ascolto,

gli abbracci di cotone e seta,

tra pensieri fruscianti di sonno,

e la goccia che queta, segna il cuscino.

Su vetri in corsa, questa notte elettrica

schiaccia colori, con zampe di gallina:

son così preziosi e fragili, prima d’esser persi.

dove? con chi?  Poi non più,

in questa vita-pozza che non asciuga.

Ho amato tutto ciò che ho visto,

e ancor più quel che sentivo,

di te, di me, come una chiacchera da bar,

invidiosa e latente, profumata di caffè.

Io non ho paura,

della tua pelle, del tuo corpo steso

non ho paura, se non di te che vai,

e torni,

e ti soffermi su pensieri che scateneranno pioggie lontane.