Prima ci furono cortei, discussioni, dibattiti, scontri. Ma erano nelle grandi città, con minoranze rumorose, la gran parte del Paese era contraria a una guerra. Lavorava, faceva fatica ad arrivare a fine settimana senza fare debiti, cercava di crescere i figli sfamandoli e tantissimi neppure sapevano di che si parlava. Così a molti sembrava che le voci di guerra fossero cose distanti. Quel vociare, quei proclami e articoli infuocati, non avrebbero cambiato le vite. Nei giornali si scriveva che erano state confermate amicizie con Austria e Germania, ma l’Italia restava neutrale. In segreto si stipulavano nuovi patti segreti, ma questo non si diceva e il popolo non sapeva. Capiva però che comunque, altrove, la guerra era scoppiata. Sembrava ancora qualcosa di lontano, un rombo di temporale che mostra un fulmine senza pioggia e intanto si spera che ci girerà attorno. C’era timore perché sentivano che non ci sarebbe stato nulla di buono in ciò che arrivava, ma si sperava che il parere contrario dei molti sarebbe stato ascoltato, e non era evidente che era meglio la pace?
Poi qualcuno decise perché pochi interessi grandi contano più di tante piccole speranze e vite, perché pochi rumorosi contano più di tanti silenti.
Così cominciarono i preparativi, le cartoline di precetto, le esercitazioni. Ma anche in questa situazione che cambiava, tutto doveva durare poco. Intanto erano mutate alcune opinioni, per i più convinti c’era una ragione altissima, per tutti gli altri un obbligo e l’impossibilità di sfuggirgli.
Forse questa era la prima violenza.
Scoppiò il 24 maggio e vennero gli addii, che dovevano essere arrivederci. Tantissimi addii, come mai prima ce n’erano stati.
Poi ci furono tantissime giornate senza pericolo e tantissimo pericolo in poco tempo. Ma tutto questo, in quell’abbraccio ai piedi di un treno, ancora non si sapeva. C’era già una lacerazione da lontananza di affetti in chi si abbracciava, un bisogno che cresceva con la paura, e ogni saluto aveva il sapore dell’ultimo. Ogni ricordo nei giorni, nei mesi successivi, sarebbe stato avvolto da quella paura, nata a partire da un abbraccio.
E allora, ovunque, una solitudine infinita avvolse donne e uomini. Non bastava essere assieme ad altri, aver cose da fare, figli da crescere, lavorare. E d’altro canto, al fronte, non bastava spostarsi o stare fermi, scavare trincee o sparare a ogni cosa che si muoveva. Non bastava perché ciò che doveva finire non finiva, ciò che si desiderava non accadeva, e la solitudine diventava immensa e con essa cresceva un’atonia che prostrava, un dover motivare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto la speranza.
Sfuggiva la speranza e restava la solitudine e la paura.
I giorni di quiete al fronte erano tantissimi, mentre quelli della paura infinita, pochi, ma così concentrati che le vite si consumavano a balzi di dieci, venti anni in un giorno, in un’ora. Quando tornarono, chi tornò, erano tutti vecchi.
Una cosa già si sapeva il 23 maggio: sarebbe accaduto un disastro. Ma anche un disastro si spera passi presto, che le cose tornino come prima, ciò che non si sapeva era che sarebbe durato talmente tanto da non avere mai fine.
Per questo una banchina di stazione dovrebbe diventare il simbolo, il sacrario delle speranze infrante.
Il luogo, il tempo, l’amore in cui gli affetti si saldarono in un abbraccio fu l’unica cosa umana in tutto quello che stava accadendo.
Ed è così che la gente viene mandata al macello, oggi come 100 anni fa
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È così. È questo che stanca, molto più che lavorare. Grazie Marisa 😊
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