17 agosto 1917
Ognuno di noi è il prodotto di un numero grande di variabili e di scelte altrui. Le strade che generano e percorrono le vite sono il frutto di scelte che si intersecano con il nostro libero arbitrio. È il regno della possibilità e degli universi paralleli e molto più concretamente è la nostra storia che deriva da una catena ininterrotta di vite e presenze.
Mi capita di pensare a mio nonno, di lui ho una fotografia, pochi pezzi di racconto degli anni di vita, storie di famiglie che si scindevano perché una morte toglieva la possibilità di continuare una attività, un commercio, l’integrità di un clan. Così un gruppo si spostava, cercava fortuna lontano dalla piccola patria che per secoli era stata il luogo della presenza unita. Mio nonno con l’intero ramo familiare non aveva fatto eccezione, ma questa è un’altra storia. Da questo nonno sono venuto anch’io, dalle scelte sue e soprattutto di altri, si è determinata la sua vita e quella di mio padre e mia nonna e come onde in uno specchio d’acqua, altre vite e scelte in un intersecarsi continuo. Quattro anni fa ho cercato il luogo dove si è annodato un tempo con altri tempi, ho capito che tra quelle doline, macchie di quercia, terreni aspri e case sparse, era accaduto qualcosa che era dolore, storia e continuità. Gli ho reso grazie, come sò e posso. Ognuno di noi inizia ed è continuità, questo il senso di essere flusso. Passato, presente, futuro. Non ci si perde nella memoria e lì si trovano dolcezza e gratitudine e senso.





Il 17 agosto era il suo compleanno. 17 anni li aveva lasciati nel secolo precedente e 17 nel nuovo. Era abituato a fare conti, confrontare numeri, vedere i risultati. I numeri erano curiosi a volte, ma non tradivano, si sommavano, sottraevano, dividevano, ma alla fine restava un numero che rappresentava qualcosa di univoco. Un dare e un avere. Lui pensava che doveva ancora avere molto. Aveva persone che amava, due figli, una moglie, un lavoro, una vita da vivere assieme, quindi i conti erano aperti, i numeri dovevano tornare.
Quella notte ci fu il trasferimento che era stato comunicato in giornata. Poche parole in italiano ripetute dagli ufficiali, verso i sotto ufficiali, e poi giù fino alle orecchie dei soldati. Le sue. Tra soldati parlavano in dialetto, il battaglione era stato costituito all’interno di due province vicine. C’erano anche altri che venivano da regioni diverse e parlavano altri dialetti, ma alla fine ci si capiva. Lui era abituato a capire lingue e dialetti differenti, parlava anche la lingua di quelli dell’altra parte dei reticolati, ma non serviva, non c’era molto da dirsi in linea, c’erano solo urli e sfottò. Ed erano meglio i secondi perché significavano quiete.
Venivano da un turno di riposo, dopo essere stati in linea dal 13 maggio al 23 luglio, sempre da quelle parti, ed erano stati dimezzati: 1806 uomini e 36 ufficiali morti. Poche centinaia di metri conquistati, erano passati da quota 224 a quota 247. Numeri che erano piccoli dossi e buche che lì si chiamano doline. Buche in cui si ammucchiavano vivi e morti, pietre e ordini, assalto e fortuna. Numeri. Si contavano muti, la sera, poi c’era la notte per pensare e la speranza che la sera dopo si potesse contare di nuovo.
Chissà cosa pensava ricordando maggio, giugno e luglio. I visi si confondevano, le persone e i fatti, tutto nel rumore degli scoppi, la corsa dell’assalto, l’acquattarsi nella dolina. Fare, sparare, correre e attendere la notte, non pensare, restare vivo.
Nei momenti di quiete ci si aggrappa a quelli certamente vivi, alla famiglia. Contava la famiglia e lui, lui e la famiglia. Vivo.
Durante il riposo e le esercitazioni si formavano gruppi, assonanze sociali, quasi parentele, ma sapevano tutti che erano su un crinale, vivere era questione di attimi, dipendeva da una coincidenza con una pallottola o una scheggia, dalla caduta di quello a fianco, dal caso.
Fino ad agosto riposo, meno di un mese e poi il 17, il giorno del suo compleanno, di nuovo in linea, immersi nel caldo torrido del giorno, con la pietra che si arroventava e lì c’era solo pietra. I pochi alberi erano stati spazzati via dai bombardamenti preventivi, i cespugli bruciati dai lanciafiamme. Pietre a pezzi, sminuzzate, frammiste a metallo di scheggia, reticolati, doline e trincee, teli sbrindellati e la comunanza di essere accalcati gli uni sugli altri. In attesa.
Il tempo si comprime e dilata, lì per giorni si caricava con la molla dell’attesa. Non passava mai ed era sempre corto, immediato.
La notte del 17 era fresca, come tutte le notti, si faceva sentire l’alito del vento del mare di Trieste che s’incanalava tra quelle valli strette, lambiva quei cumuli di pietre.
A luglio, dal colle di Sant’Elia, il mare si vedeva e sembrava così strano che laggiù ci fosse una vita normale, che le persone andassero al lavoro, a casa la sera, dormissero in letti normali, facessero l’amore, bevessero birra fresca nelle osterie e a cena accarezzassero la testa dei figli chiedendogli com’era andata la giornata. Li, anche se non formalmente, c’era la pace.
Il Papa aveva parlato di inutile strage per tentare di fermare la guerra, non c’era riuscito anche se i re e gli imperatori erano tutti cristiani. Ma poi quelle parole così comprensibili e adatte ai tempi non erano esse stesse una contraddizione: quale strage può essere utile?
Lui non pensava tutte queste cose, la notte del 17 agosto, sentiva che andava in linea, compiva gli anni, e sperava che quella pace poco distante nelle retrovie avrebbe potuto raggiungerla. Contava i giorni in cui restare vivo. Iniziava quella notte l’11.a battaglia dell’Isonzo, un numero palindromo. E bisognava conquistare quota 219 poi quota 246, la dolina della bottiglia.
Ma tutte queste cose non gliele dicevano, quando la molla del tempo si scaricava, usavano parole semplici: baionetta in canna, tutti fuori, all’attacco. Qualcuno gridava Savoia, qualcun altro moriva subito, altri correvano e i feriti urlavano. Col cuore in gola, sparavano e correvano, vivi, finché durava.
Era la notte del 17 agosto, compiva 34 anni, si chiamava Antonio, aveva due figli piccoli e una moglie e li amava tutti.
Restò vivo e li pensò fino al 22 agosto, in quattro giorni morirono tra quota 219 e 246, 1594 soldati e 67 ufficiali. Numeri, ma Lui fu uno di questi e il suo luogo convenzionale di morte fu indicato in quella dolina delle bottiglie che ora non c’è in nessuna carta geografica.
Auguri, nonno Antonio, nella vita e nella morte.
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Maledette guerre, e non impariamo mai…
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Chi genera la guerra è maledetto, potrebbe dare la pace e per potere sceglie la distruzione delle vite
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