C’era un gioco, eravamo bambini pieni di stupore e d’inventiva, che veniva fatto con un “Gelosino”; un registratore che era quasi un simbolo di classe media nei regali di Natale. Un parallelepipedo marroncino con due bobinette che aveva un microfono e poteva registrare con un fruscio che sembrava un respiro e diventava parte delle conversazioni. Lasciandolo acceso, un amico d’allora, aveva registrato le conversazioni dei grandi e poi ce le aveva fatte ascoltare. Parole e fatti strani che non venivano detti davanti ai bambini ora erano spiattellati in un linguaggio inusitato. Ridacchiavamo nel sentire e nell’indovinare i proprietari delle voci, poi le parole ci colpivano e il parlare così aperto d’altri, che a noi stupiva, visto che veniva proibito di rivolgersi persino direttamente agli adulti non di famiglia. Era un gioco che ci divertì per quasi un pomeriggio prima d’essere scoperti ad ascoltare per l’ennesima volta le voci che venivano da quell’aggeggio misterioso. Forse eravamo troppo intenti e silenziosi per non essere presi, o forse volevamo farci scoprire in questo gioco così intimo, come accade agli amanti che dopo essersi nascosti a lungo fanno in modo che sia l’evidenza a dire ciò che da soli non direbbero mai. Comunque fu una bella strigliata per il mio amico che metteva gli affari di famiglia in piazza e il nastro fu immediatamente cancellato. Anzi fu proibito a me e a lui di parlarne con alcuno del contenuto. Un po’ ci sentivamo agenti segreti e mantenemmo il segreto, forse per una dozzina d’ore prima di parlarne con altri amichetti. Grandi risate e grandi segreti, soprattutto nei confronti dei figli di quelli che erano stati oggetto dei racconti più salaci.
C’ho ripensato tempo fa, riascoltando cassette incise in occasione di riunioni o anche di conversazioni che dovevano essere poi trascritte in verbali. E mi è parso così strano sentire come il linguaggio parlato sia più libero e sintatticamente privo di una pagina su cui scrivere. Come i silenzi, le interiezioni, le ripetizioni si inframmezzano nel discorso e come questo abbia la qualità di liberare oltre la sintassi anche il giudizio, la parola che eccede il significato. Come sia semplice parlar d’altri in presenza e in assenza e come emerga l’io, in questo dire che vorrebbe essere assoluto ed è invece così precario e infarcito di convenzioni, di modi di dire e di incertezze anche quando sembra essere assertivo od ordinatorio. Ho poi ascoltato la mia voce incisa quando pensavo che registrare fosse un buon modo per fermare i pensieri troppo veloci e poi ho trovato un esemplare di quelle che un tempo erano le segreterie telefoniche, quegli aggeggi che in fondo erano un registratore in cui chi non era in casa magari qualificava sé con un messaggio spiritoso e chi chiamava doveva raccogliere le idee per dire qualcosa di sensato e di esaustivo prima del beep che chiudeva la comunicazione. C’erano messaggi ancora incisi. Voci che davano appuntamenti, che chiedevano, esitando, d’essere richiamate, ma soprattutto persone. E allora ho pensato alla riva del mare, a come le onde portino una scia di piccoli rottami di ciò che s’annida negli abissi e lo dispongano davanti a noi a ricordare che molto è stato vivo, o aveva altra funzione, oppure semplicemente è arrivato da altre parti. E queste cose si dispongono secondo l’onda, per poi sparire, ma ci sono state con un esistere che non è passato, ed è la somma delle voci che si sono succedute anche nell’inanimato. E ci accade anche quando camminiamo in una foresta e il rumore sembra all’inizio solo quello dei nostri passi, oppure di notte nel deserto, sotto una tenda, e si sente la sabbia fluire dalle dune, o ancora quando guardiamo il soffitto insonni, nel buio e gli scricchiolii dei legni e della casa si mescolano con la sensazione d’aria smossa. E magari il pensiero va a chi c’è stato prima di noi, ha abitato, pensato, parlato tra quelle mura. Si racconta in qualche libro di semifantascienza che nulla in realtà si perde quando viene generato, che le voci delle cose o degli uomini, trasformate in onda divengono parte di questo universo e che questo sia un modo per conservare l’energia. Come un brusio di fondo che accompagna ogni nuovo generarsi. E allora ho pensato che forse così accade anche al sentire e ai sentimenti e che essi non si disperdano, come sa chi conserva fortemente il senso di un amore o di una persona conosciuta. Come vivessimo, noi immersi in un acquario d’onde e luci che hanno la capacità di combinare ciò che è stato con quello che c’è e ci sarà. E mi è sembrato che in questo essere mediatori del tempo, solo il conoscere di più, il sentire di più, ovvero il contrario di ciò che ci veniva insegnato, ci renda più ricchi, più immersi nell’universo e parte di esso.