lavoro ed equità

In ogni oggetto che acquistiamo c’è una parte visibile e una invisibile. Quella visibile è il prezzo, la qualità, la marca, il nostro desiderio di possederlo, in quella invisibile ci sono le materie prime, l’intelligenza nel progettarlo, il lavoro per farlo e portarlo fino alle nostre mani. In quella parte invisibile c’è un filo rosso che porta lontano, spesso in paesi fuori dal nostro immaginare, in città brulicanti con lingue sconosciute, in miniere, campi, fabbriche e uomini. In questa parte invisibile spesso si annida l’ingiustizia, il lavoro pagato poco e male, le condizioni di sfruttamento di donne, bambini, uomini. Qualche giorno fa è crollata una factory in Bangladesh cui lavoravano centinaia di persone, paga media 30 dollari al mese per 12 ore di lavoro al giorno. Meglio che lavorare i campi, hanno detto quelli che lavorano in fabbriche simili, almeno qui il lavoro non è stagionale e ti pagano ogni mese. E le condizioni magari miglioreranno di poco per il clamore suscitato dalla disgrazia, ma saranno sempre lontane da quel minimo che tutela dignità e diritti di una persona.

Chiarisco che non voglio che la merce resti nei negozi, anche perché per questi lavoratori sarebbe peggio, ma qual’è il nostro livello di tolleranza nell’ingiustizia e quanta siamo disposti a portarcene addosso?  Poca, tanta, infinita, ovvero facciamo finta di nulla, tanto è così?  E se l’oggetto che vogliamo, portasse un tagliando che certifica che il produttore applica condizioni eque di lavoro e paga una paga fissata come livello di vita accettabile da un organismo terzo come l’ILO  (international labour organization), saremmo più felici di comprarlo o meno? Se sapessimo che la commessa che ce lo vende non viene sottopagata, non è precaria, non lavora nei giorni festivi, saremmo più contenti oppure no?

Ecco, pur sapendo che l’equità è distante dal profitto e ancor più dalle catene della produzione e del commercio, se ogni anno ci avvicinassimo un po’ di più alla giustizia, ne sarei felice. Se sapessi che il mio telefonino, o il mio schermo, non viene da una fabbrica dove le persone si suicidano per le condizioni di lavoro, ne sarei felice. Se ci fosse una graduatoria dei produttori iniqui (e in parte c’è), potrei evitare quelli più ingiusti e incuranti delle persone. E se fossimo in tanti a farlo, questi si affretterebbero a cambiare modi di produrre e diventare più equi. Insomma penso che il primo maggio dura tutto l’anno e che applicarne lo spirito, come discrimine dei miei acquisti è la mia arma libera e pacifica. Tutta questo mondo si regge sul consumo e il consumo può cambiarlo, portiamo un po’ di giustizia ed equità nel nostro acquistare e il lavoro diventerà migliore.

p.s vorrei anche ricordare che molto egoisticamente, che è l’equità che difende i lavoratori anche nel nostro mondo. Dove non c’è equità la concorrenza diventa sleale e il mercato si altera, vince l’ingiusto e il truffatore, e le fabbriche chiudono.

2 pensieri su “lavoro ed equità

  1. concordo. solo di una cosina non sono convinto: se la merce rimane nei negozi, per i lavoratori è peggio. non credo sia così automatico, soprattutto quando il lasciare la merce nei negozi è accompagnato da adeguate e motivate campagne di boicottaggio (ci sono vari esempi di campagne efficaci). che poi, in generale, la considerazione si sposa con l’idea che possiamo essere artefici fino in fondo del nostro modo di “consumare” (o non consumare).

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  2. Credo che le campagne di boicottaggio siano efficaci, che cambino l’atteggiamento tartufesco delle case madri che lasciano il lavoro sporco alle leggi e ai kapò dei vari paesi in cui producono. Il dibattito sull’etica del produrre è abbastanza vecchio e consolidato da risultare ben conosciuto in ogni direzione generale di azienda. E come i bilanci sociali d’impresa, la questione dei diritti può essere veicolo promozionale dell’acquisto, quindi non mi stupisco più di tanto se anche l’etica è usata a fini commerciali, l’accetto perché non spingo la critica ai livelli radicali dell’utilità del bene e quindi del suo valore congruente con il prezzo economico e sociale, ma se, pur nel consumismo, spingo la mia scelta verso livelli di modifica dei modi del produrre comincio ad alterare un mercato e me stesso nelle mie scelte: una vera rivoluzione. Quindi hai ragione che il boicottare è doppiamente efficace. A suo tempo ho seguito varie campagne, tra cui la campagna contro l’adidas per i palloni cuciti da bambini e per le scarpe prodotte con collanti con effetti sul sistema nervoso, devo dire che è ( per quanto di mia conoscenza) uno dei casi in cui la pressione internazionale non ha fatto chiudere i laboratori e tolto un pur minimo reddito, ma in innumerevoli altri casi è invece successo proprio questo, quindi la battaglia si deve sposare con la necessità che hanno questi lavoratori di non essere i veri capri espiatori.

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