Nei primi anni di università frequentavo un gruppo di studenti arabi, c’erano palestinesi, iraniani, giordani, qualche siriano. Ci vedevamo a lezione, al bar o in sala studio, si parlava con le ragazze, c’era sempre molto caffè da bere, risate, curiosità reciproca. Erano anni in cui le guerre tra i Paesi Arabi ed Israele si susseguivano, in Iran c’era molta resistenza, cercavamo di capire senza darlo a vedere e per questo parlavamo tutti con generosità di parole, di tutto, ma anche molto di vita quotidiana. Inshallah concludeva tutti i ragionamenti pratici: gli esami, una serata programmata, un approccio possibile con qualche ragazza, l’appuntamento per il cinema.
Non mi rendevo molto conto del valore che c’era dietro a questa parola, m’affascinava il suono, come accade per la lingua araba quando scivola tra le vocali ed addolcisce consonanti. Mi chiedevo come si potesse rallentare una vita fatta di slanci, perché tali erano i loro e quelli della loro storia, temperando il governo delle cose e del tempo, con l’attesa e l’ accettazione di una volontà esterna così forte da essere l’ultima a dire la parola. Sembrava un affidarsi operoso: ho fatto il possibile adesso tocca a te.
I miei amici erano laici, bevevano e mangiavano senza preclusioni, comunque non credenti e come noi spesso agnostici, si parlava di religioni comparate come fenomeno culturale più che come insieme di precetti, eppure inshallah emergeva come modo di vedere prima che intercalare. L’impressione che ne traevo era quella di essere altrove, come venisse aperta d’estate la porta d’ una chiesa ed il fresco che usciva, prendeva, non occorreva credere in qualcosa per star bene, e si capiva benissimo che quello era il logico accompagnare di ogni sereno preannuncio di impresa, di programma futuro.
Pur sentendone il fascino, mi sfuggiva allora questo affidarsi dinamico, lo capii di più in seguito, con gli anni, e con i viaggi. La parola ed il suo significato tornava, mentre si allargava il suo confine e diventava un modo di vedere il mondo. Credo che il probabilmente a cui aderisco quando vado in africa, o l’affidarsi vigile di quando viaggio nei paesi arabi siano il mio modo di aver capito che ci sono posti e regole in cui lasciar fare agli eventi. E che questo è un aiuto al compimento dei progetti. Inshallah così diventa anche il mio intercalare, ed il modo per ritrovare una serenità messa a dura prova dagli orari mancati, dalle deviazioni continue, dagli accidenti che spostano di albergo, di cibo e di tragitto. Non arrivo ancora a pensare che la vita, la salute siano poco da tutelare perché comunque un caso benevolo le difenderà, mi premunisco per quanto possibile, ma dove non arrivo, spero e lascio fare.
Mi viene da pensarlo in queste giornate di terremoto, quando l’imprevisto diviene più forte e la scelta è tra alternative inesistenti: è meglio restare o andare? correre od attendere? Scelgo e mi muovo sperando che sia la scelta giusta. Per me il significato di inshallah è questo, fare con serenità una scelta che presa, non dipende più da noi soli, ma da una miriade di variabili per cui è meglio che la loro somma conduca pressapoco dove dovevamo andare.
Ecco, facciamo, impegnamoci, portiamo noi e il nostro mondo verso qualcosa che ci porti avanti, ci faccia bene e speriamo che tutto vada per il verso giusto.
Inshallah.

Allah Hakbar…..
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mi sembra un po’ l’akuna matata africano…quanto l’ho sentito…un abbraccio .
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🙂 non è un no worries, forse non è neppure ottimista in sé, ma
tutto ciò che s’affida trova una ragione antica, qualcosa vorrà pur dire
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eccomi, ufficialmente in ritardo in un momento di grande impegno. arrivo, arrivo. pazienza. che poesia, queste vecchie serate universitarie arabe. bellissimo.
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posso andare un attimo contro corrente?…esistono i risvolti delle medaglie, di ragazze che ormai non sono più ragazze., che irretite da questi bravi ragazzi musulmani tutta birra e prosciutto se li sono sposati : e poi, perchè la vita è quella, sono andate nei loro paesi, e non erano più bravi ragazzi tutta birra e prosciutto, erano tornati ad essere come i loro padri. ci sono faldoni di divorzi , di bambini portati via dai padri perchè nel loro diritto le donne non contano niente e i figli sono tutti del padre. bisogna ammettere le diversità, saperle riconoscere, capirle, se vuoi, ma mai lasciarsi sedurre dal “siamo tutti ” : per loro le donne non sono “tutte uguali”, hanno una storia diversa alle spalle, e quella storia è pesante-
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@missminnie, di quegli anni porto il ricordo delle amiche che, sposate ad iraniani, tornarono in Italia, dopo essere state nell’ Iran dopo la rivoluzione. Tornate per ricominciare a vivere all’occidentale, con la libertà che avevano sempre avuto. Tutte queste si riportarono i figli, dopo il divorzio, ma so di altri casi in cui la cosa non accadde. Ricordo anche un pittore, di grande talento, comunista, che poteva restare in Italia ma tornò a casa per coerenza con la rivoluzione che tanto aveva sostenuto, e finì giustiziato. Quindi ho ben presente ciò di cui parli. Io stesso ho discusso in Syria con l’imam che ci faceva da guida, sulle modalità con cui si attua la vita delle donne. Ognuno rimase sulle sue posizioni, lui sosteneva che le donne erano contente del modo d’essere orientale, io non ci credevo. Poi ad Aleppo, per caso in un ristorante finii in una festa di donne, furono gentilissime ed erano belle con i loro abiti all’occidentale corretti secondo il gusto locale, le minigonne e i jeans, capii che c’era un circuito parallelo che in pubblico non si vedeva.
Esistono culture che evolvono, con la permanenza di vecchio e di nuovo. E nel mondo, ovunque, il ruolo della donna nelle diverse culture, pur senza evocare il matriarcato nei pochi esempi concreti in cui è esistito, è oggetto di una profonda riconsiderazione ed evoluzione. Basti pensare a qual’era e qual’è il ruolo femminile in Cina, India o Giappone.
Ma non è questo ciò di cui parlo e non è neppure la celebrazione dell’islamismo, mi interessa piuttosto un modo di vedere, che è cultura nel procedere.
Inshallah è il nostro: se dio vuole, oppure a dio piacendo, ovvero un affidarsi alla divinità per colmare quello che manca.
Questo modo di vedere, pur non essendo credente, mi affascina perché infonde tranquillità, tratta diversamente il tempo, riporta l’uomo dall’onnipotenza ad una dimensione accettabile.
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Quando anagraficamente ero molto giovane non potevo addormentarmi senza aver recitato il Padre Nostro. Ricordo che al “sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra” qualcosa all’altezza del petto si sollevava. Un lasciare. Un abbandonarsi. Mi sentivo piccola, ma in qualche modo al sicuro. Ne ricordo la piacevolezza. Non recito il Padre Nostro da molti anni. Sono consapevole della nostra limitante condizione umana. Il controllo è illusorio. In questo sta il mio inshallah.
Ciao WIlly
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E’ bello Inshallah, è un fidarsi e un affidarsi.
A Dio o a chi per lui.
Quando lo risento però mi vengono i brividi e non riesco a non pensare ad un mio collega che ho salutato la sera prima che partisse per una spedizione sul K2 anche con un arrivederci al suo ritorno.
Mi ha risposto: “Inshallah”.
Sicuramente era conscio del rischio che correva.
Ma non l’ho più rivisto vivo. 😦
:’-(
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