Sui cancelli della fabbrica vuota scolorite bandiere sindacali penzolano sfilacciate. Chissà dove sono ora i lavoratori, come procedono le storie individuali, i figli da mandare a scuola, il mutuo o l’affitto da pagare, l’idea di aver perso non una battaglia, ma la guerra della vita. Competenze disperse assieme alle abitudini, il fare dissolto in un nuovo fare qualunque. Ogni mattina, per anni, ci sono stati i volti di chi stava a fianco nel capannone, qualche intreccio personale, i racconti dei figli, delle domeniche e degli amori durante la mensa.
Passando distratti, si rimuovono i piccoli dolori altrui, le esistenze singole spezzate, si pensa che un nuovo equilibrio, comunque, l’avranno trovato.
Con il letto caldo e il caffè al mattino, nelle nostre case le finestre attutiscono il tempo atmosferico e quello sociale: per fortuna non è toccato a noi, poveretti…
E il pensiero si scioglie in una vaga inquietudine di fondo, un malessere che non emerge e lega e che non farà fare alcuna protesta vera.
E’ toccato ad altri, speriamo, tiriamo avanti, passerà.
E la vita non muta, c’è solo questo disagio che non è solidarietà, che non è difesa, che fa vivere giorno per giorno senza progetti.
Basta cambiare strada e tutto farà sempre meno male, finchè il tiro non si avvicina davvero. E allora sarà troppo tardi.
Chissà dove sarà finita Vincenzina.