L’impressione, entrando nell’ immenso salone, è d’un altrove scatenato a terra che addensa segni, parole spiaccicate nei libri, ronzio gonfio di voci, sudore di calca, visi disfatti, persone stravaccate su cubi in pelle rigenerata, soddisfazione di vedere Tremonti che firma in solitudine le copie del suo ultimo libro, così impara a dire che con la cultura non si mangia, panchine oggetto di desiderio, e angoli, molti, troppi angoli, che amplificano ciò che non si può amplificare, il pensiero, e lo frangono, emozionano, lo fanno riflettere la luce prima di disperderlo in decine di altre scatole craniche, finalmente attente ed ascoltanti. Insomma, un flusso inarrestabile di intenzioni e desideri, dove ognuno cerca qualcosa e spesso lo trova, in una frenesia caotica e direzionata.
E’ uno spazio tempo del quiadesso, un coagulo di volontà che si risolverà in pochi giorni, immemore dell’altro, altrove passato. E l’altrove di prima, lo si vede innalzando gli occhi, filtrando tra i pannelli, verso le capriate d’acciaio ed i muri alti, verticali, grigi ed inutili ora, per cose a misura d’uomini, ma qui gli occhi s’ alzano poco, per cui il ricordo si confina nel mio: qui costruivano motori, un tempo l’aria era compressa e percossa dal clangore delle calandre, l’ozono e i minuscoli soli di saldatura, frizzavano nelle narici, in un sincopare di schiocchi e rumori ritmici d’aria compressa. Il luogo del fare è ricettacolo del pensare, dal materiale all’immateriale, eppure… Eppure c’è un nesso profondo tra ciò che spinge a leggere e ciò che si fa, chi legge non vive solo in un mondo parallelo generato dal cervello di chi scrive, ma segue una realtà fatta di oggetti, di cose concrete che arredano il pensiero. Immagino il pensiero degli operai d’un tempo, degli impiegati con il tinello e i volumi rilegati di Conoscere o di qualche enciclopedia ereditata. I classici, la scrivania in un angolo, e per i più vivi, il grigio delle rilegature Einaudi oppure il marroncino della Bur. Quel leggere entrava in fabbrica e dalla fabbrica, con la sirena, usciva nei quartieri, spezzava a tavola il profumo di minestra, riusciva dopo cena nei bar fino a notte, oppure si stemperava davanti a televisori a rate. Era un altro modo di sapere e i saperi si sono confrontati ed assimilati in altri anni. Volponi, Olivetti, Levi, Ottieri, Calvino sarebbero felici del mescolarsi così alto di simbologie, qui, in questo luogo, e di questo flusso di persone in cerca (di cosa, di chi? ), che trova, compulsivamente trova.
Questo luogo non è il mio per l’ atto dello scegliere libri. Ho una libreria, un libraio che conosco da sempre, con cui parlo e che accoglie in restituzione ciò che non mi piace, scaffali di cui conosco la disposizione, banchi in cui mi fermo in lettura, persone con cui converso e scambio impressioni. L’orgia del pensiero, la bulimia dell’acquisto la consumo altrove, però qui sono dentro le parole, e il mondo, che non è né quieto né ordinato. E mi piacciono entrambi. Ho anche una scelta da fare: passo al digitale oppure continuo con la mia amata carta? Credo che un dinosauro debba essere felice della sua specie, dell’essere quello che è, di questo me ne rendo conto qui, compulsando la tentazione: che mi costa? mi regalano anche 4 libri, c’è l’offerta salone. Quasi quasi mi prendo un tablet che così ho tutto, pesa però, per leggere, 680 g, poco per un computer molto per la mia testa quando m’addormento. Cheffò, lo prendo? No, non lo prendo, varrebbe la pena solo per il dizionario incluso, è bello, poi parla e traduce. Quasi, quasi…
Non l’ho preso, ma non è finita e a modo mio qualche altro inutile aggeggio arriverà. Il salone è stato utile anche per questo, bello il digitale, ma meglio l’odore della carta. Magari potrebbe essere un’idea per Amazon quella di dotare i lettori di un profumo e di un crepitio di foglio, quasi quasi la brevetto.
Non solo di parole si nutre l’uomo, ottimo il pecorino e pure il cannonau, dello stand Sardo, la cultura ha gusto e peso proteico. Avete mai osservato come un buffet culturale ecciti gli appetiti più famelici, persone compassate, professori e maestre dalla penna rossa davanti al buffet si trasformano. In coda ad un convegno sull’attualità di Leopardi, ho visto il tentativo di consumare un tentacolo crudo di piovra, arredo del banco, brandito trionfalmente da un’insegnante che l’aveva strappato nella ressa. Sabato ho avuto modo di ascoltare un testo in sardo, letto con una voce bellissima, non ho capito nulla, ma mi sembrava la voce della terra, dell’acqua, della roccia che per suo conto diceva di sé.
Al salone ho incontrato persone di cui conoscevo solo lo scrivere, bloggeur come me. E’ bello sovrapporre il viso alle parole scritte, e chi frequenta i blog conosce il rischio della delusione nell’incontro, ma se non c’è doppio fine e non si raccontano balle, ci si accorge con stupore che la persona è quella che avevi in testa. Anzi di più perché parla in diretta. Abbiamo arricchito ( ;-)) i Benetton? Non credo, ma che miseria nella terra dello slow food, io però ero contento, di quella contentezza immotivata e un po’ bambina, del conoscere amici, del consumare quello che c’è con loro; come si aprisse una porta e la luce che ne veniva fosse calda, profumata di buono.
Questo degli incontri è un tema che vorrei consigliare ai gestori del Salone, ovvero configurare uno spazio per bloggeurs con tanto di caffè e tavolini, un bistrot da rive gauche. Sarebbe un appuntamento annuale per gli amanti della parola, un percorso inverso dal digitale al reale.
La sera, a cena dal Parin, secondo turno; alle 23.30 eravamo ancora all’antipasto. Siamo andati via per non coincidere con il primo turno del mezzogiorno successivo. Per me, che sono perverso, è stato divertente e molto, anche il non cenare, merito della compagnia.
Il giorno dopo Torino, era Juventina, assonnata, spazzata da folate di pioggia. Mi pareva logico che il Salone fosse lì fuori, nelle piazze, nei viali vuoti di persone, nei caffè che aspettavano mezzogiono per diventare ristoranti. Mi pareva logico che nel Circolo dei lettori, il buffet fosse sommesso, i bicchieri appropriati, il parente piemontese della cassoeula, giustamente indigesto.
i.s. è sempre stato presente in questi giorni, il pensiero grato per questa visita torinese, per chi mi ha dedicato attenzione, regalato un inconsueta quantità di sorrisi, estorto gentilmente parole che tradivano la mia timidezza. E, cosa singolare, mi ha fatto retrodatare la settimana come inizio al sabato. Come dire che l’effetto dura tutt’ora.
Grazie.

