Parlare di solitudine e malinconia è relativamente facile. Sopratutto in questi luoghi si ha la propensione a partecipare (e credo, anche a lenire le proprie malinconie con quelle altrui), a provare empatie che non hanno la verifica dell’incontro e quindi si confinano nell’attenzione momentanea. Sentire ntensi e veloci, in accordo con il mondo che scorre.
E’ facile anche parlare di sesso, di libri, di sport, di cinema, di viaggi: si trasmette un’emozione, si mostra e si condivide. L’impressione è che nello scrivere s’ intinga sempre la penna in qualcosa che s’ è raccolto da qualche parte, un umore metaforico o reale. Raramente è il fiele a parlare, che pure molto dice, ma non qui, luogo d’ inchiostri leggeri.
Difficile è parlare della gioia, non del piacere o del godere, ma delle gradazioni del gioire, delle intensità interiori della gioia: cose che permangono e lasciano segni profondi esattamente come il dolore lungo e lieve. Così nelle mie teorie bislacche in questo sentire e capire c’è spazio per la costruzione di sentimenti nuovi. E al dolore come alla gioia, do il compito di mutare davvero chi ne è investito: dialogo con sé più che manifestazione esterna.
Sono sfumature che esplodono dentro (possono esplodere le sfumature o abbiamo sempre bisogno di gusti forti?) e lasciano traccie profonde.
Solo a volte, con l’attenzione a ritrarsi in fretta, una mano fatta di spirito (qui la parola ha la giusta immaterialità) permette un accesso, una chiave, chiedendo un’attenzione inusuale per condividere.
Condizioni che conosciamo tutti, chi più chi meno restii a lasciare che qualcuno faccia con noi qualche passo nel profondo.
Ma parliamo d’altro, parliamo di noi con la giusta leggerezza.