white christmas

Le lobbie marroni, i cappotti ben sotto il ginocchio, le camicie con i colletti a punta e le cravatte regimental di seta. Attorno tante luci, candele, scarpe nere che si imprimevano nella neve, suoni. Bing Crosby, white christmas, alberi enormi davanti al camino, pacchetti con fiocchi e carta translucida.

Qualcosa mi è sempre mancato all’appello, la soddisfazione piena era un attimo e già sembrava un’impressione. Nei giorni di vigilia, l’immagine americana del natale, qui a nord, veniva tenuta con il dito medio che agganciava il nastro del panettone Motta o Alemagna (io preferivo il Motta), c’erano saluti frettolosi per il gelo, mucchi di neve, chiazze di luce ben distanziate, sotto i lampioni. In periferia un freddo che faceva rintanare nelle case, finestre con luce gialla che si chiudevano al tramonto, fango, tanto fango, dappertutto.

In centro, i negozi erano pieni di luce sotto i portici. Ero contento di abitare in centro, ascoltare gli zampognari, e anche solo vedere i giocattoli era un vantaggio rispetto alla campagna che non aveva né luci, né negozi, né vetrine. Anche la neve si sporcava prima in campagna. Quindi se  non mi piaceva white christmas, me la facevo piacere nell’ illusione di una felicità incipiente.

Insomma ero già contento, ma mi sfuggiva qualcosa, come se l’assomigliare, nella testa, alle immagini patinate dei giornali o della pubblicità, non fosse sufficiente per essere felici. Non capivo che tutta quell’iconografia era la continuazione di babbo natale dopo la rivelazione che non c’era, che non esisteva un italian way of life, che le immagini erano la cornice, ma la storia la dovevo scrivere io. Ecco questo non me lo spiegava nessuno: sembrava tutto fatto ed invece era tutto da costruire. L’ho capito poi, ovvero quasi ci sono riuscito, ma qualcosa manca sempre all’appello.