A volte guardando la stessa fotografia di sé, si riconosce un altro. E poi, in altra occasione, guardando la stessa fotografia, emerge ancora un’altra persona. Sono differenze di particolari. Chi ci ha visto e fotografato, chissà a cosa puntava. Voleva un sorriso oppure il pensiero che attraversava mente ed occhi? Voleva essere rassicurato, tenuto da conto, amato e lo chiedeva suggerendo l’espressione, oppure si ingegnava di trovare in noi la differenza che sino a quel momento non aveva visto eppure sapeva esserci. Il lato oscuro, insomma.
Molto più facilmente, avrà fermato un attimo purchessia, le cose vanno per loro conto ma hanno una coerenza e il contesto aveva lo stesso senso della nostra presenza: c’eravamo entrambi, c’era il sole o una pioggia battente, condividevano tempo e luogo, eravamo felici o indifferenti, in sintonia comunque. L’immagine era già nata come un rafforzamento del ricordo, utile per i momenti meno luminosi, un lasciare e tenere traccia d’essere stati. Cosa e come, contava molto meno, questo in fondo, serviva poi e lo si lasciava alla più fallace e creativa delle facoltà, ovvero la memoria, ma era importante che essa agisse anche per prove.
Le continuità hanno bisogno di prove, mentre le passioni, gli innamoramenti o le assenze esigono altro. Ad esempio si nutrono della poesia, del non concludere lo stato di benessere, dell’equilibrio del presumere, dell’assenza della verifica.
Guardando la fotografia, di me vedo un’aria ironica, lievemente sbarazzina, quasi incurante di ciò che sta attorno, come pregustassi un’ evoluzione. C’è un lampo negli occhi che può essere di ingenuità oppure di contentezza senza un motivo particolare.
Rivedo dopo parecchio tempo la stessa fotografia. È uscita da sola dall’immenso pozzo a cui attinge il salva schermo. Un memento che toglie dall’oblio il rumore del mondo che abbiamo fotografato. Ora mi riconosco vedendo altro di me. Mi studio, cosa chiaramente inutile perché nel vedersi davvero, funziona solo l’intuito e l’impressione. Dall’osservazione analitica emergono le difficoltà, i difetti d’immagine, la conformità alla maschera che è l’opinione di sé. Si colgono le cose che non vanno, ma è superficie, cos’è che va invece ? Tolto il narcisismo insito in ogni rappresentazione, resta il comprendere e la sua difficoltà ed è questo che si dovrebbe fare anche davanti allo specchio. Ancor più nel selfie, che è sempre un messaggio a qualcuno: chi sono, cosa guardo, a cosa sto pensando e soprattutto chi vorrei essere che m’assomiglia?
Per certi versi è vero che ritratti e foto catturano l’anima. O almeno un frammento.
Mi è piaciuto leggerti.
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Grazie Pat per il tuo commento 😉
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