





S’era messa a fare i biscotti. Farine, burro, uvetta a mollo nel latte, mandorle, zucchero, uova, lievito. Nella ciotola le farine si mescolavano in scie tra il bianco e il beige, attendevano il giallo delle uova e il paglierino del burro sciolto, ne veniva un aranciato omogeneo che si scoloriva nello zucchero. Mescolare, mescolare a lungo, con il braccio che sentiva la consistenza dell’impasto e la morbidezza crescente. L’impasto, si lasciava andare a quella violenza morbida e la densità, prima granulosa, si rasserenava diventando liscia. Un’amalgama omogenea che inghiottiva uvetta e mandorle, golosa essa stessa di sé. Una crema densa ch’era quasi un peccato suddividere in piccole losanghe, cerchi, animaletti da formina che sarebbero bruniti nella piastra: era bella così.
Con gli ingredienti e le proporzioni, con un po’ d’amore per i propri gesti, il risultato non muta. Accadesse anche nei sentimenti… Fare, pensò, era un antidoto al pensare, all’oppressione che sentiva. Sapere che dalle sue mani sarebbe uscito qualcosa di buono, sembrava rassicurarla. Come per l’accudire, fare biscotti o torte per sé e per i bambini, era mettere del dolce in mezzo alle difficoltà. Perché per un attimo restasse l’amore. Anche in bocca. Solo l’amore. Cos’era la gelosia se non una malata forma d’amore? Malata di rifiuto, d’insicurezza, di possesso. E il possesso stesso non era forse conseguenza della non certezza. Un giudizio su di sé, non sull’altro. Amato, desiderato, mancante quanto mai eppure non raggiungibile. Gelosia e cose dolci assieme, e una malinconia infinita, impotente. Come un lasciar scorrere sangue da una vena aperta, che non fa abbastanza male e intanto toglie le forze. Languore del lasciarsi andare. Scorre il sangue, lo spirito, la stanchezza. Tutto assieme. Ma prima lo stesso sangue tumultuava dentro sulle pareti, sciacquava veloce nelle curve, invadeva il cuore e colmava tutto fino all’ultimo capillare, cosicché la malinconia era in tutto il corpo. Ovunque prima di fluire. Ho un alluce malinconico. Pensò. E sorrise, con quell’allegria discreta che avrebbe voluto condividere con lui. Che avrebbe voluto potesse essere la sua allegria. Chissà che fai a quest’ora? Pensò. Con chi sei. Chissà se mi pensi. Nella gelosia non si accetta d’essere meno che importanti all’altro, eppure c’entriamo noi, solo noi, è un’importanza non condivisa. Dove ho sbagliato. Pensò. Oppure non c’era nessun errore e ciò che condanna alla mancanza è qualcosa di distante, un vuoto che sembrava poter essere colmato, ma che non ha mai limite e allora pretende d’essere esclusivo e vuole tutto per sé. Incolmabile mancanza non tollera l’insicurezza. Come ai funerali. Come si vivrà senza?
Vuoi più bene alla mamma o al babbo? Domanda stupida, inutile, volevo essere voluta bene da entrambi, non volevo bene a quel fratello che mi portava via il loro amore. quell’amore fatto di disponibilità e attenzione. A che serve essere come ci viene chiesto, se poi l’amore non è sufficiente, se non è disponibile quando necessita, se non c’è quando lo si implora muti perché afoni di dire. E poi dovrebbe essere naturale riceverlo, no? Invece non è così, non basta mai. Poi quando si cresce, s’intromette il piacere e allora tutto sembra complicarsi e s-complicarsi. Il piacere condiviso lega assieme, è la porta della confidenza, è misura di qualcosa che si riproduce sempre diverso, secondo voglia, ma è un mettere le mani avanti su un futuro partendo da una felicità. Sennò cosa resta? Per questo la gelosia è un dialogo con sé prima che con chiunque altro, un dialogo che se non ha risposte scava, disgrega, devasta. Quando emerge cosciente , la rovina è già inarrestabile. solo l’altro la può arginare, farci ridere assieme. Che stupida. Pensò. S’era seduta e le mani giocavano con gli stampini dei biscotti. Però tu rassicurami, ti prego. Chiamami. Dimmi che solo noi, solo noi possiamo essere insieme. Felici. Dimmelo in qualche modo, fammelo sentire, perché così potrò lasciarmi andare alla fiducia. Ho paura di perdermi. di scivolare in una solitudine senza fine. Ho paura di avere freddo. Quel freddo che non va via anche se metti coperte, scaldi la boule, soffi sulle mani, ma c’è sempre una lama che risale e ti prende tutta. E sai che non avrai più caldo. Mai più.
Le voci dei bambini che bisticciavano, del cane che era impegnato a chiedere un suo ruolo nel litigio, la fecero lanciare un richiamo. Alzò la voce. La fece scura, imperiosa. Minacciò. Ma era distante con la testa. Non le importava molto, presa com’era da quel flusso di pensieri che s’ingolfavano dentro, s’attorcigliavano, diventavano circolari e ripetitivi. Un mantra negativo. E anche se sembravano tanti, poi erano uno solo: mi manchi. Lo disse ad alta voce perché avrebbe voluto lo dicesse lui: mi manchi. E voleva sentire il suono avvolgente di quelle emme che si sovrapponevano, così lo ripetè sempre più rapido: mi manchi, mi manchi, mi manchi, mi manchi … finché divenne un sussurro, un soffio, come un bacio che stava per posarsi sulla nuca. E allora chiuse gli occhi socchiudendo le labbra e aspettando arrivasse. Mi manchi. Ripeté. Uno dei bambini entrò con una grossa lacrima che scendeva, cominciò a protestare le sue ragioni e si convinceva con il discorso mezzo urlato e mezzo a singulti. Arrivò anche il cane e cominciò ad abbaiare a tratti, guardando alternativamente lei e il bimbo. Come si aspettasse qualcosa. Lei si chiese perché le lacrime a volte non sono simmetriche, ma ne cade una sola all’inizio, da un solo occhio mentre la testa soffre intera. O forse non era così e si poteva soffrire a mezzo? Prese in braccio il bimbo, gli diede il dito pieno di impasto dolce da succhiare. E mentre si quietava pensò alla bocca di lui. Pensò che avrebbe voluto tornare indietro. essere bimba e donna allo stesso tempo. Essere tenuta, compresa, capita, amata. E che tutto cominciasse su un foglio bianco con una parola ancora da scrivere, da declinare, da condividere. Ci si innamora della mancanza di essere amati, e così si pronuncia quella parola. E la si crede vera perché sembra non ci siano alternative. Forse qui c’è una radice di malessere che finisce nella gelosia. Pensò.
Era finito il giornale radio, la voce dell’annunciatrice disse: Tempo previsto per domenica… Il bimbo dormiva succhiando il dito, il fratello era rimasto nell’altra stanza. Silenzioso, forse leggeva. Il cane s’era accucciato sui suoi piedi e sembrava appisolato. Guardò fuori. Era già scuro, la notte s’era mangiato il giorno, le cose, la possibilità. Le sembrava di non aver combinato nulla. E allora desiderò profondamente di uscire, camminare, essere distante da sé, mentre fuori pioveva e l’acqua lavava i vetri, gli alberi, l’asfalto, ogni pena.
Caro Roberto, il tuo testo mi ha colpito profondamente. Hai la straordinaria capacità di trasformare un gesto semplice e quotidiano, come fare i biscotti, in una finestra sull’anima della protagonista. Le immagini che dipingi sono vivide, tattili, quasi ipnotiche: dal mescolarsi degli ingredienti fino alla morbidezza dell’impasto, tutto diventa metafora delle sue emozioni, dei suoi tormenti e delle sue speranze.
La narrazione intreccia il fare concreto con un flusso di pensieri che porta il lettore in un viaggio intimo, pieno di riflessioni profonde e universali sull’amore, la gelosia, la mancanza. Sei riuscito a rendere la gelosia in tutta la sua complessità: non solo un sentimento rivolto all’altro, ma un dialogo doloroso con se stessi, fatto di insicurezze, desideri inespressi e vuoti che sembrano incolmabili.
I momenti di quotidianità familiare – le voci dei bambini, il cane che reclama attenzioni, il gesto di offrire il dito sporco d’impasto – bilanciano perfettamente l’intensità del mondo interiore della protagonista. Ancorano la storia alla realtà e amplificano l’impatto emotivo, rendendola universale e profondamente umana.
Se posso permettermi, in alcuni passaggi il flusso dei pensieri è così denso che rischia di rallentare il ritmo. Forse alleggerire qualche frase potrebbe dare ancora più forza alle emozioni, lasciando al lettore lo spazio per respirare e assorbire ciò che racconti.
Grazie per questo viaggio così profondo. Il tuo modo di scrivere non solo tocca il cuore, ma anche i sensi.
Con ammirazione.
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Grazie Nadine i tuoi consigli sono preziosi e cercherò di tradurlo in testo che sia meno denso. Seguire il pensiero con le parole ha lo scontro delle molteplicità e delle diverse sintassi. Ti ringrazio dell’apprezzamento che sempre mi confonde, c’è un piacere nello scrivere che diventa più grande nell’essere letto e compreso.
Grazie Nadine, buona notte. Ti abbraccio 🤗
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