Qualcuno avrà fatto la fatica di ritrovare e analizzare le presenze dei popoli nei mobili, nella loro fattura, in relazione a uso e cultura. Nella mia ignoranza non penso, alle scarne e ovvie prefazioni dei libri che descrivono uno stile, che traggono informazioni dal casato che commissionò e sull’artigiano artista che esegui, ma proprio al ripetersi del fare trasmesso con gli usi. Penso a questo stile definito povero, perche era ovunque, ma pur sempre aspirazione a uno status, e che sarebbe diventato rigoroso nel farsi, nella sua semplicita priva di orpelli.
In questa credenza nulla sembra distaccarsi da un lavoro di falegname, da un legno scelto e poi piallato con cura, da un mordente dato per esaltare le venature, da una vernice che impreziosisca il legno senza grandi nobiltà e che il tutto funzioni bene negli incastri, nello scorrere dei cassetti, nelle proporzioni per riempire con decenza una stanza modesta. Un ordine e un lavoro fatto onestamente, secondo canoni e misure predeterminate, che doveva stare su una parete senza debordare, lasciando spazio al bianco, e forse a una piattiera per quei piatti e quelle teglie di rame che non si usavano mai, ma facevano il tono della casa. Una credenza modesta e capiente, senza pretenziosità in cui contenere stoviglie e qualche cibo poco deperibile: farine, riso, frutta secca.
La semplicita dello stile e il legno ricercato solo nell’assenza di nodi sono gia un connotarsi, è una credenza austriacante che si è ripetuta in molti luoghi, con molti legni, di fatto seguendo le dinastie dei regnanti austriaci negli staterelli italici. Questa viene dalla toscana ma sarebbe stata piu o meno eguale nella bassa Lombardia oppure in Friuli o in Slovenia, o nel Veneto, dov’è ora. In questo conservarsi dopo oltre un secolo vedo una sorta di piccolo miracolo. La mia famiglia si spostò molto negli anni a cavallo tra i due secoli scorsi, quasi trent’anni di case abitate, e arredate fino all’ultima lasciata in fretta alla soglia della prima guerra mondiale. Poi ci furono ancora spostamenti di chi era rimasto, bombardamenti e altre case, sempre nella città da cui erano partiti. Fu tutto disperso e di quei movimenti resta poco o nulla a testimoniare la calma e il piacere d’una scelta, una necessità, trasferita su un mobile, un piacere nelle cose. Ciò che c’era si dissolse in calore, in cessioni, in piccoli furti. Resta poco e tutto si è trasferito nei ricordi, ma una credenza molto simile a questa era in casa. Non era la piu importante, piuttosto quella riservata alle cose che non servivano e quindi il mio regno. Venendo dall’ osteria del bisnonno qualche storia l’ aveva conservata, e ora aveva i miei tesori di ragazzino. Poi anch’ essa si perse in una soffitta durante un trasloco, lasciando il rimpianto di non averla saputa difendere. Questa, che le assomiglia molto, prima di venire in casa mia ha ospitato i sogni distratti, le carte e alcune letture, oltre a piatti e bicchieri, di Casa Logic a Bologna. Nel suo disfare quell’esperienza, nel dividere abitanti e mobili d’una casa, mio figlio me la propose. Accettai subito, seppure un po’ claudicante, sembrava fosse il ritorno di qualcosa che se n’era andato e voleva tornare. Ora è al suo posto, in quella parete che sembra costruita per lei, è tornata a casa.