il fine del dolore

Che ne diresti di respirare un po’ d’aria pura, o almeno diversa, da questi miasmi in cui ti rivolti da anni? Il tuo dolore costante, esibito, è ammantato di thanatos, è nutrito di psicofarmaci, si rivolta su se stesso trovando sempre le sue ragioni per esistere. Ma quali sono le tue ragioni? Davvero vorresti star bene oppure c’hai definitivamente rinunciato? Il dolore è un bozzolo forte e caldo, come la percezione di vivere nella sfortuna, alimenta una diversità che è comunicazione. Spesso è arrogante questa comunicazione, ha un solo oggetto importante: il dolore sentito. E’ anche violento perché esibisce il lato oscuro che tutti abbiamo in misura più o meno grande, ma è fragile perché oltre il momento in cui avvince allontana.

Forse è la solitudine che vuoi, il far largo attorno: o partecipate della mia pena oppure non mi considerate davvero e quindi meglio che non ci sentiamo, vediamo, parliamo. Credo che la solitudine in questo caso non consoli, ma sia la verifica voluta del proprio star male, un modo per star male di più. Ma è davvero questo che vuoi? Star male indefinitamente? Non dirmi che non capisco, però nessuna guarigione è possibile se si cura solo il sintomo, nessuna speranza oltre un ripetersi di pastiglie, ritualità che diventano i punti nodali della giornata. Ansiolitico, altri farmaci per le reazioni psicosomatiche, sonnifero. Non vorrei tu smettessi, ma che fosse un percorso verso una liberazione dal dolore di vivere, verso una luce. Il fine del dolore non è forse la sua fine?

Lo so che hai pensato e pensi, non di rado alla morte, ma so anche che sei nella vita, la coltivi, la speri. Te lo dico perché i suicidi hanno una disperazione diversa dalla tua e un dolore innominabile (e tu invece ne parli diffusamente), perché nel loro approfondire si trovano di fronte alla morte come negazione del dolore di vivere. Ma la loro ricerca non è la tua, non hanno più spiragli e neppure voglia d’essere capiti. E’ una solitudine estrema dove qualsiasi presenza diventa eccessiva, con una comunicazione che neppure parla e resta la sola presenza. Ma non sono assenti, si interessano, hanno amore, i suicidi, solo che non c’è più speranza e neppure  desiderio d’essere commiserati, anzi è proprio il contrario e quando non desiderano più essere amati hanno varcato la soglia.

Tu puoi farcela, ma ora come un tempo dipende da te, dal tuo sorriso, dalla capacità di non accettare quella che sembra essere una condanna e non lo è, non è il tempo che ti toglie vita, ma sei tu che te la togli. Lo so che è difficile, ma non sei sola se superi il confine del dolore, prova a pensarci.

p.s. lo so che non leggerai, potresti dirmi, ma allora che scrivi a fare? Quello che ho scritto te l’ho detto a voce, magari le parole non sono state le stesse, è passato tempo, però le ho ripetute. Non ho nessuna verità né qui, né su altro, ma ciò che ti imprigiona l’ho visto altrove. Non era lo stesso, però era sovrapponibile e questo mi convince che non sei solo tu ad essere così. Altri stanno meglio, altri restano nel dolore, ma non vale per tutti,  e sarebbe bello che tu facessi un altro tentativo. E poi un altro ancora, caparbiamente, fino ad aver ragione. La tua non la mia, ovviamente.

15 pensieri su “il fine del dolore

  1. Che argomento serio ma “necessario” da affrontare,a volte,giacchè anch’esso fa parte delle misteriose realtà di ognuno,quando si è perso il senso d’essere nella fisicità-materialità di cui noi siamo formati. Vivere è “esserci” dentro al “piacere”,principio da cui parte ogni cosa che mette in moto vita e creazione.Ma se il dolore prendesse il sopravvento anche su quell’impulso vitalissimo,allora potrebbe venire a meno anche il significato del fare,oscurare l’immaginazione stessa che porta a fare,l’assoluta gioia dell’istante che porta ad abbracciare “Qualcuno” ascoltandosi mentre battono all’unisono i reciprochi cuori.
    Purtuttavia restano sempre i perchè la vita non abbia avuto la meglio anche sul dolore. E “qui” vige il rispetto del silenzio.Mirka

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  2. sono una che nel sangue ha più benzo che globuli rossi, perchè ho paura di morire, quindi mi faccio venire gli infarti, mi manca l’aria e varie ed eventuali. cioè sono pazza. malata e irrecuperabile. però vivo lo stesso, vado avanti, infarti (per ora) seri non mi sono venuti, scherzo sulle benzo, e sulla mia pazzia. che devo fare, robertì? ho fatto anche analisi, ho ammazzato mia madre un paio di volte ma lei è sempre lì, un po’ meno forte, ma forse è perchè sono più distaccata io. noi pazzi dentro siamo una razza incurabile, ci riconosciamo da distante, discettiamo su lorazepam o altri pam come fossimo valenti psichiatri., siamo le colonne portanti della bayer. uno per tutti, carlo verdone e margherita buy.
    una cosa non faremo mai : ammazzarci.
    quello, purtroppo, lo fanno i veri malati dell’anima.
    a bientot.

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  3. robertì non mi lamento perchè nessuno mi ha mai dato retta :)….anche quando stavo malissimo e ciucciavo il lexotan dal botticino il mio ex marito mi diceva che erano cazzate, mia madre non aveva tempo, camilla e allegra avevano un paio d’anni e mi chiedevano se era buono quello che bevevo, le mie sorelle erano impegnate, le mie amiche ciucciavano il lexotan pure loro….INCOMPRESA, ecco. tu sai come la penso : dare retta solo a chi veramente ha un grande dolore dentro ( e alla fine si ammazza veramente) , il resto via andare, che si sopravvive . sono poco indulgente con le svenevoli, con quelle che fingono, con quelle che non si vogliono curare-sono-contro-i-farmaci-e-così-rompo-i-coglioni-al-mondo, ho imparato a gestire le cose da sola, e quando morirò qualcuno dirà : però, magari potevamo darle retta stavolta 🙂

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  4. non è un problema ciucciare il lexotan, ma restare ad attendere che qualcuno ti salvi. Tu hai affronatato la tua vita, hai fatto cose da Matrix, e ti sei portata avanti. di quello che so delle tue amiche, mica tutte facevano gli sfracelli che facevi tu. Hai tenuto duro, con coraggio e determinazione. Provare dolore e continuare a combattere non è da tutti Crì. E a tuo modo ne sei uscita, con tre figlie, mica poco. Se raccontassi la tua storia ai lamentevoli forse qualche dubbio gli verrebbe. Non si tratta solo di donne, la lettera non ha genere e ti posso assicurare che non mancano una equa distribuzione tra uomini e donne di questo modo di imbozzolarsi nel dolore.

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  5. sempre detto di aprire un banchetto insieme, willy…tu porti i lamentevoli e io faccio Lucy..the doctor is in :)……ovviamente ci facciamo pagare, eh, che gratis neanche la diamo più via :)…….bellolì

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  6. Molto recentemente ho perso un amico. Era stanco di provare dolore e anche di raccontarlo. Poco prima di morire diceva a tutti che stava meglio. Non riesco a contenere l’immagine del dolore che penso abbia provato.
    Il fine del dolore è la sua fine.
    Anche per lui è stato così, ma ha coinciso con la morte.
    Dopo solo silenzio pieno della necessità di accettare il suo gesto di libertà.

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  7. Demonizzare il dolore attraverso la sollecitudine verso chi sta nel bozzolo della sofferenza e non ne vuole/non ne può uscirne mi sembra un buon modo per alleggerirle il dolore alla propria coscienza, ma pure, forse, una strategia in qualche modo evitativa del dolore stesso.
    Mascherare la sofferenza è più doloroso che stare nel bozzolo in pieno avvolgimento e contorcimento. Te lo assicuro. Niente è peggio che sforzarsi a star bene quando il rovello non dà pace e vuole il suo ascolto. Per cui credo che la fase, più o meno lunga (chi può dirlo, può essere questione di settimane come di anni, il tempo psicologico non è il tempo degli orologi), in cui nel dolore ci si sta dai piedi alla punta sei capelli, sia un momento che segna un’evoluzione rispetto al tentativo di ‘normalizzarsi’ di spingersi a supereroismi e quant’altro.
    Con questo non voglio dire che non vi siano persone per le quali il soffrire sia l’unico modo di ‘sentirsi’ vivo, che spesso ci si accorge che l’indulgere in atmosfere oscure e nel pessimismo, abbia modificato il vocabolario emotivo, per cui si è bravissimi a descrivere le minuzie del soffrire, come fossero piccoli reticoli di tagli col coltellino, mentre mancano le parole della contentezza, non si trovano, non si sa come dire le cose che ci hanno fatto star bene. E’ limitativo, sicuramente. Come chi vuole stare bene per forza, chi si costringe all’iperattività, chi vuole finire subito una cosa per passare alla successiva, chi riempie la propria vita di ‘eventi’, di happy hours and so on…
    Io credo che bisogna avere fiducia nel tempo, che a volte il fine del dolore non è esattamente la sua ‘fine’, detto così in modo perentorio, è poco rispettoso del ‘tempo’ e del ‘mistero’ del dolore. Ci sono vite che non si accomodano, sarà per colpa di chi se le porta addosso, non saprei. Spesso il loro male è quello di non trovare posto nella vita degli altri, e uno dei modi è questo disagio molto comune di non riuscire ad accostarsi con rispetto alla vita altrui. Non c’è una vita qualunque, ognuno ha la sua. Quale sia il fine di tutto, chi lo sa?

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  8. @ids: certo bisogna aver fiducia nel tempo, comunque grande guaritore, e a questo comunque bisogna aggiungerci qualcosa. Ti faccio un esempio, credo a tutti, noto: una terapia analitica o psicologica, o anche una malattia esigono che vi sia una volontà da parte di chi si sottopone alla cura. Poi le “furbizie” che si mettono in atto per togliersi il problema del voler guarire spetterà al terapeuta risolverle, ma la volontarietà è imprescindibile. I farmaci sono molto più permissivi perché funzionano (abbastanza) comunque. Hai perfettamente ragione quando dici che ci sono vite che non si accomodano e che spesso un male è non trovare posto nella vita degli altri. Mi chiedo, ben sapendo che questo è un terreno di grande sofferenza, se queste persone trovano posto nella loro vita prima che in quella altrui. Credo che questa sia una delle cose più difficili, ovvero star bene con sé, non a prescindere, ma per sforzo e convinzione propria. E’ una cosa che non ti insegna nessuno e si pensa che nelle altrui vite ci sia posto per questa soluzione,cosa che a volte funziona e c’è l’incontro che fa sentire sicuri e accolti, ma a volte. Nella maggior parte dei casi c’è una richiesta con una risposta difforme, prima soddisfacente e poi ondivaga, magari non subito, ma in seguito, quando ci si capisce di più. E il più debole è colui che soffre, e non è in condizione di uscire dalla sua situazione. Non vorrei dare un’impressione che non mi appartiene. ho molto rispetto per chi soffre, proprio per questo sento l’insufficienza del solo aiuto esterno, necessario, ma non sufficiente.
    Sul fatto che il dolore non sia sempre un sintomo che chiede di essere sanato, ci rifletto. Francamente, sia dal mondo sensibile che da quello meno tangibile, credo che il dolore sia ciò che ci avverte che qualcosa non va, che è necessario cercare di rimettere in ordine la macchina. E’ una reazione semplicistica, non di rado priva di soluzione, ma il segnale credo sia solo questo: stai male, se puoi provvedi a rimuovere la causa. E a chi altri può parlare la mente e il corpo, se non a noi per chiederci aiuto?

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  9. Penso che il tema che affronti nel post, ovvero la responsabilità del proprio dolore, sia estremamente difficile da generalizzare, senza rischiare di snaturarlo e tradire il suo senso. E’ difficile soprattutto in una realtà che preferisce mascherarlo dietro un benessere illusorio. Ma si tratta di evitamento nevrotico, il più delle volte. Il dolore è radicato nella nostra vita, appartiene all’uomo e alla sua natura, perfino l’infanzia non ne è esente. Al dolore si può dare un senso solo accettandolo, senza la presunzione di guarirlo, ma compatendolo. Che sia questo il suo fine?
    Certe volte mi sono chiesta perchè si accetta il dolore del corpo, di chi ha una gamba rotta, ma non si accetta quello interiore, esistenziale o mentale. Spesso, poi, il secondo si somatizza sul primo. Spesso gli esercizi razionali non servono, anzi.
    A me pare che, proprio perchè inaccettato, il dolore sia diventato una dannazione del singolo. Forse è la visione cristiana che lo ha legato al peccato, all’espiazione, non so. Penso al mondo greco, alla Grecia antica, dove il dolore era superindividuale, l’eroe che soffriva rappresentava un destino più ampio, appartenente a tutti, invece che quello specifico della sua vita. Abbandono subito questo aspetto troppo farraginoso.
    Stare bene nella propria vita prima che con gli altri. Vero, magari le due cose sono interagenti. Non esiste nell’educazione un momento in cui si isola il bambino dalla società, lo si prepara per dotarlo al meglio, per poi immetterlo nel gruppo affinchè metta se stesso in relazione con gli altri. I due momenti sono contemporanei e spesso i disagi nascono da un circuito che manca del senso del limite, in senso educativo e culturale. Anche il concetto del dolore secondo me risente di questa mancanza del limite, anche quello della macchina interna – il cervello – e le sue funzioni, del senso dell’umano e della com-passione. Lo si vede come consolazione o indennizzo.
    Sicuramente la sofferenza ha in sè un potere trasformativo e creativo, ora è inutile che citi esempi artistici, letterari, che ben conosciamo, a cominciare da Montale, per dirne uno. Forse mi sbaglio, ma se si cominciasse a vedere nella sofferenza, qualcosa che copre tutti i suoi prossimi e non solo il singolo, forse ne avremmo più rispetto.

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  10. Spero di non generalizzare,Ids,certamente non banalizzo. E’ vero che il dolore altrui disturba, quindi chi lo prova mimetizza finché può. E’ altrettanto vero che chi cerca di aiutare si trova non di rado paralizzato nel suo essere vicino. Non so cosa stia accadendo realmente nella società, di certo si è più soli, ma non meno dipendenti dagli altri. Di certo un forte edonismo porta a banalizzare il dolore altrui ed enfatizzare il proprio, ma non aiuta a trovare una ragione comune. Penso ancora che la spinta nell’uomo sia verso la felicità, e che questa non escluda il capire il dolore proprio e altrui. Forse hai ragione, manca un limite tra lo star bene con sé e lo star bene con gli altri, come se le cose fossero concorrenti. Di certo è più difficile parlare in modo sottile della felicità che del dolore, come se la prima fosse all’ingrosso e un accidente istintivo e il secondo una condizione del’intelligenza. Mi chiedo invece cosa sia il rispetto della sofferenza oltre la comprensione di questa e se questo rispetto esima dall’intromettersi, ovvero dal sollecitare, dall’essere vicino, ma anche dal chiedere, pur nella sua difficoltà, lo star bene. Si può voler bene e spingere ad uscire dal dolore, oppure è tutto inutile?

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  11. Faccio coincidere il rispetto con l’accettazione, il voler bene anche nel dolore. Riesce a tutti amare una persona che sprizza gioia da tutti i pori, che è piena di iniziative e di passionalità. Avvicinarsi a una persona nella sofferenza implica essere in contatto con la propria, per lo meno empatizzare con l’altro. Spingere a uscire dal dolore va bene, certo che fa sentire benvoluti. E’ cosa sottile, mai forzata. Chi si rompe un arto non può andare a fare le gare di sci, ma poco alla volta riabilitarsi a fare piccoli passi. La speranza, quella è importante. Fare in modo che non si chiuda la porta sul futuro e che invece sia tutto un presente infernale. Non credo tu abbia bisogno dei miei consigli :).

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  12. Condivido quello che dici Ids, l’accettazione e’ rispetto profondo. Non c’è fretta, e’ un cammino, si arriva basta camminare. Eppoi quelli che sprizzano gioia in continuazione sono spesso perduti nella loro gioia. Meglio la serenità che si raggiunge forse mai, ma è’ un percorso nella vita. 🙂

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