la casa dei matti

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Sono piene di verde le vecchie case dei matti, rimesse a nuovo nei colori pastello, che quasi non c’è traccia dell’abisso di sofferenze che hanno contenuto. Solo in vetrine chiuse nei corridoi di rappresentanza, giacciono in mostra vecchi strumenti. Evocano elettricità e mente, scosse elettriche, dolore, guance incavate, denti radi, bruciature (erano proprio bruciature, le ustioni sono troppo impersonali), distruzione progressiva, richiesta d’annientamento, dolore. Sembrano diagnostica di un tempo, curiosità asettiche ricche di manometri e fili, ma da qualche parte saranno pur finiti i letti di contenzione, le camicie di forza, le apparecchiature per l’elettroshock. Anche se non si mostrano, c’erano.

Ora ci sono molti alberi alti, molti uccelli, molte presenze, molte auto. Servono ad altro adesso gli edifici, eppure le alte mura, i cancelli, i tavoli di cemento e le panche ormai marce nel parco, ricordano altre presenze. Venivo per lavoro, quando questa era la casa dei matti, e loro, dopo la riforma Basaglia, in gran parte se ne stavano andando o se n’erano andati, ma c’erano presenze stabili, quelli che nessuno poteva o voleva accogliere, definite con due parole terribili: residuo psichiatrico. Erano più di 300 allora, che s’aggiravano per il parco senza essere più nessuno, se non la loro malattia.

In una di queste mie visite incontrai, per caso, una conoscenza d’infanzia. Magro allampanato come allora, ma senza quella bici da corsa rossa che da ragazzo lo accompagnava ovunque. Ricordo che correva con il calzone destro alzato con una molletta, veloce, indifferente se non ai suoi pensieri, pronto a bloccarsi solo per quella cerimonia che ogni tanto officiava quando gli veniva l’attacco: si fermava, scendeva e, in silenzio, scuoteva furiosamente la bici finché non si calmava. Per questo lo chiamavamo mambo, ma non faceva altro di particolare. Se aveva voglia discuteva con noi di calcio, di ragazze, con un eloquio curato. Parlava un buon italiano a noi che rispondevamo in dialetto e se pur aveva qualche anno in più, i suoi pensieri erano simili ai nostri. Insomma c’era e sembrava come noi. La domenica suonava l’organo in chiesa, era bravo, trovava musiche adatte ad un pubblico che apprezzava maestria e cantabilità, possanza ( se un organo non è possente che organo è ? ) e pianissimi da trattenere il respiro. Chissà perché era finito dentro alla casa dei matti, forse non aveva più nessuno. Quando chiesi se suonava anche lì l’organo, mi dissero di sì e che il prete capiva se accanto ad un corale di Bach o una toccata di Widor, c’ infilava l’internazionale o bandiera rossa. Anche qualche canzonetta c’infilava, ma i suoi colleghi erano contenti e spesso cantavano in coro durante la messa. E se era: in ginocchio da te, pur sempre in ginocchio erano. Mambo era comunista, questo me lo ricordo bene, chissà se significava qualcosa lì dentro. Credo servisse solo a discutere molto.

Incontrai altri durante quelle visite, ne ricordo due, in particolare : un amico d’infanzia che non rimase molto. Entrava ed usciva, poi alla quarta o quinta volta si stancò e prese la scorciatoia della tromba delle scale. Era bravo a scuola, un anno avanti, anche nella laurea, studiava molto, e aveva già un buon lavoro assicurato in famiglia, gli mancava la forza di vivere quel futuro. Trovai anche una ragazza che m’ era piaciuta quando avevo 20 anni, era strana anche allora, e non s’era combinato niente. Era lì su sua richiesta, per poco, mi disse. Parlammo di amici comuni, davanti a un caffè, con la familiarità che si trova quando si ha voglia di sentir l’altro. So che poi è finita  bene ( ma finiscono davvero queste cose, nella presunta normalità ?), in fondo era solo una pena d’amore, eccessiva come quello che le stava attorno.

Adesso il residuo non c’è più, anche il ricordo di ciò che c’era prima svanisce. Si scioglie un poco per volta con gli anni del prima e del dopo. Qualcuno più vecchio, fuori, rimpiange il passato, i matti sono un problema e la società, noi, non amiamo i problemi, ma non si torna indietro. Intanto qui e’ rimasto il verde, più curato di allora. Un poliambulatorio, laboratori, diagnostica, uffici, attività di formazione, del prima restano le panchine tra gli alberi, alcuni edifici sbarrati e transennati. Forse erano finiti i soldi per ristrutturare o non hanno pretendenti.

Se l’edificio non fosse stato vincolato, forse sarebbe andato all’asta per farci appartamenti o trasformato in scuola. Forse.

E adesso vorrebbe essere altro, è così anonimo, però è inconfondibile nella sua struttura di casa dei matti. Cerca di mutare, e qualunque sia il suo futuro quelle teche disseminate nei corridoi non dicono tutto.

Ma a chi interessano davvero i dolori altrui del passato quando già quelli dei presente sono difficili da sopportare?

p.s. sono stato fortunato qualche mese fa: per due volte, in momenti diversi, ho ascoltato, su radio tre l’intero monologo recitato da Giulia Lazzarini, semplicemente strepitosa, Lei è Mariuccia Giacomini che scrive il suo diario, un’ infermiera dell’ospedale psichiatrico di Trieste, prima travolta poi conquistata dalla riforma Basaglia. Semplice e così intima, nel suo triestino, dolce e terribile, fino a rovesciare totalmente il proprio modo di vedere e la propria vita. Due volte l’ho ascoltato e per due volte non sono riuscito a trattenere le lacrime.

Peccato non sia disponibile interamente su you tube, bisognerebbe farlo sentire nelle scuole, passarlo alla tv, far capire cosa c’era prima di Basaglia e della legge 180..

12 pensieri su “la casa dei matti

  1. E’ un vero peccato che sia introvabile l’intero monologo di cui parli, di cui mi piacerebbe trovare per lo meno il testo scritto.
    Ma ti assicuro che bastavano già le tue parole ad emozionare, e non poco.

    Non voglio nemmeno immaginare le sofferenze di chi in quei luoghi è passato per vari motivi, anche perchè solo “scomodo” (p.es. Ida Dalser nel manicomio di Pergine Valsugana)
    Grazie Will per il contributo al ricordo di una realtà dimenticata e spesso poco conosciuta …

    Che sia una bella giornata, ciao

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  2. Luoghi molte volte di torture, segregazioni e violenze…..ma da fuori non si potrà mai capire com’era veramente. Buona giornata.

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  3. Io lo amo quel posto di cui parli, quella casa dei matti. Dal primo momento in cui ci sono entrata ormai dieci anni fa, non lo so, è strano, non ci sento il dolore, non solo. Ci sento una casa, i baristi che questi matti li salutano e sanno che non devono far loro il caffè, i dottori chi con il camice e chi -come me- senza. Tutti insieme, poi fumare fuori, intirizziti d’inverno. E in fondo i gatti e le galline, che quando non trovi parcheggio vicino agli ambulatori pare che sei in una fattoria, e quella chiesa orribile che pare che un dio che non ha capito nulla si ostini a vegliare ma senza adattarsi alla geografia di quei luoghi. Sarà che lo faccio di mestiere, sarà che in quel posto ci sono un po’ cresciuta, sarà che ci sono spesso ma è un po’ anche casa mia, e sfuma il dolore, e prende colore l’umanità che ci sta dentro. A me, arrivarci in bici, sparata da quel cavalcavia, incrociando i tossici del sert, non so, mi fa sentire casa, un’abitudine, degli affetti.

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  4. con i matti, tossici e alcolisti io ho un rapporto strano. fin da bambina.. di paura. ecco , l’ho detto. forse perchè io devo avere tutto sotto controllo e quelli sotto controllo non hanno niente. c’era la figlia di amici di famiglia che era strana, rovinata da un vaccino, e si esprimeva con mugolii, voleva toccarmi, mi metteva le dita in bocca, io ho passato anni sotto il letto quando veniva lei. è bruttissimo a dirsi, mi rendo conto. non ci vedo la poesia in un tossico, e neanche in un alcolista. esiste una parola buddista, compassion, che non è la cattolica compassione pelosetta, ma la compassione per gli esseri umani in quanto tale. oltre non vado, con loro.

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  5. mi fai venire voglia di riprendere in mano un quaderno che ho messo da parte da diversi anni, in cui annotai circa tre anni di sensazioni, storie, episodi, rabbie, malesseri o splendide emozioni, incontri e discussioni con gli altri operatori vissuti all’interno di un ex OPP. ricordo che una delle discussioni più animate fu sul fatto che, nonostante fossero passati più di vent’anni, la legge basaglia non era ancora entrata nella mentalità di tanti operatori. credo che lo farò, di andare a cercare quel quaderno, e prima o poi forse ci scriverò anche qualcosa.

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  6. Non so alla fine, cosa sia “cambiato” veramente dopo la legge Basaglia. La psichiatria continua a formulare diagnosi basandosi su una normalità determinata su basi statistiche, i “matti” vengono interpretati e reinventati secondo un modello astratto e le persone “reali” spariscono, fagocitati dal sistema. Il dolore si chiama “depressione”, la gioia “maniacalità” e a nessuno là dentro importa cosa significano quel riso o quel grido o quella lacrima o quel silenzio. Non si può curare chi soffre, si può soltanto prendersene cura. Non si può definire la sofferenza, ci si può solo girarvi attorno con gesti e parole. Insomma abbracciarla, consapevoli del fatto che rimane sempre uno scarto insuperabile tra il viverla e il parlarne.

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  7. ho letto con partecipazione i vostri commenti, ho trovato ovunque verità che assomigliavano alle mie. La pazzia è dolore e spesso amore interrotto, ha bisogno di un amore immenso oltre le cure mediche, di “cura” per l’appunto.
    Mi piacerebbe che tu riprendessi in mano i tuoi quaderni Mirtillo, leggere come li vedi ora.
    Io ero un esterno in quel luogo, e arrivavo non molto dopo Basaglia, che ti assicuro Andante, ha cambiato davvero molto, rispetto a prima. Ma lì, in ciò che vedevo, la legge era più subita che voluta e i problemi erano piccoli e immani, sia per quelli rimasti che per quelli che erano usciti in un mondo impreparato a riceverli. Molti operatori hanno fatto miracoli di umanità, nel monologo della Lazzarini, c’è una situazione simile ad una che ho vissuto di persona, un 25 aprile, con lo sconcerto e la paura delle persone che non erano abituate alla schiettezza o al silenzio dei “matti” in luoghi che sembravano riservati ai sani.
    Gli infermieri che erano amici o compagni di sindacato, non parlavano volentieri del prima, delle cure drastiche, della pena che suscitava anche in loro il dolore che vedevano: un dolore che spesso camminava, si muoveva, aveva momenti di quiete e improvvisi scoppi. Un dolore diverso da quello supino che si vedeva negli altri ospedali.
    Credo che la pazzia contenga, anche ora, molto dolore e ricerca d’amore, forse questo la rende simile alle realtà estreme della normalità. Forse per questo a Trieste, mato è un modo per dire uomo, perché il confine è labile e passare dall’altra parte è un rischio non impossibile.

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  8. davvero un post interessantissimo, come sempre, willy.
    sono toccata da vicino…la famiglia di un carissimo amico combatte da 20 anni con un figlio che “matto” che lo davvero ma per la legge deve decidere da solo se considerarsi tale…è una cosa tremenda, per lui e per i suoi.
    ho lavorato in un’azienda d’abbigliamento che produceva anche forniture ospedaliere, abiti per i matti e camicie di forza comprese.
    venivano in azienda a scegliere modelli e tessuti due signore, una dottoressa ed un’infermiera…ero sempre scandalizzata dal fatto che permettessero di usare gli avanzi di magazzino a basso prezzo che il direttore proponeva per i tessuti, così capitava di produrre salopettes con bottoni automatici al cavallo in panno rosso o turchese taglia 60 per gli uomini…non so se riuscite a visualizzare…
    ( per loro le signore sceglievano gli abiti più belli e costosi, rigorosamente regalati).
    arrivò la rivoluzione – basaglia e venne uno psichiatra a scegliere: ordinò per gli uomini giacche e pantaloni in velluto a coste, le salopettes diventarono in jeans.
    per le donne niente più gonne a balze in varie fantasie abbinate…ma sobri chemisiers e gonne diritte, tinta unita, in tessuti comprati appositamente.
    seppi poi che alcune rimpiangevano le fantasie e la possibilità di “fare la ruota” con la gonna nuova…tutta colorata.
    ecco, voglio pensare a una bambina di 60 anni che per un attimo è stata felice della la sua gonna a tre balze arricciata…un po’ hippy.

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