Pescatori e marinai seduti sul muretto al sole, parlano con fiotti di parole, saluti e silenzi: aspettano la cena ed un altro giorno uguale a questo. C’è poco da fare, poca pesca, poco lavoro, solo spazio per ricordi recenti, famiglie.
In quest’isola reclutava la marina imperiale austro veneta, ed un timoniere di qui, Vincenzo Vianello, ricevette la medaglia d’oro dell’imperatore per aver affondato a Lissa, la corazzata re d’Italia. I piemontesi, che, per molti, ancora non erano italiani, forse sentirono i viva san Marco dalle navi nemiche. Quando vincevano sul mare, fossero veneti, istriani, o dalmati, vinceva san Marco, e sui ponti di comando delle navi imperiali, in Adriatico si davano ordini in veneziano. Anche Tegetthoff lo faceva, i suoi ufficiali avevano studiato al collegio navale di Venezia, il Morosini, il mare di casa era l’adriatico. Ma di tutto questo ribollire non è rimasto più nulla, neppure la fatica di diventare italiani è stata davvero celebrata.
Anziani bruciati dal sole, caparosolanti (pescatori di cozze) in fermo pesca, reti ripassate perché non si sa che fare. Si sale in barca si pulisce, si mette in moto, e si ri-ormeggia. Qui tutto attende qualcosa che rovesci un senso di fine. Un matrimonio, un battesimo, i bambini alla comunione, qualcosa che porti fuori da un tempo che s’è spezzato. Si spezza il tempo degli uomini, in qualsiasi cosa che finisce mentre nulla ricomincia. In un passo del contributo alla critica dell’economia politica, Marx diceva qualcosa che allora mi sembrava ovvio, ossia che il nuovo, nasce nel vecchio che fa i conti con le sue contraddizioni, e questo lo alimenta finché il nuovo prenderà il sopravvento. Marx era un positivista prima del positivismo, pensava che alla fine le cose si sarebbero messe in ordine. Mi pareva che bisognasse cercare, per capire, il filo rosso che lega le cose, e i fatti, e le vite nel sociale. Solo il filo che si riconosce quando ha già cucito ed occlude la vista dei tanti futuri possibili ed abortiti, delle possibilità spazzate dal reale. Ma qui, mica lo sanno che bisogna trovare un senso alla storia, in quest’isola di vecchi, il senso della storia è nell’orgoglio dì essere il terminale di una catena ininterrotta.
La stessa sensazione si prova nei paesi di montagna dove il turismo non ha costruito troppe case vuote, e tra gli abitanti, la nascita di un bimbo, un matrimonio, una persona che sceglie di restare, è un fatto collettivo, una speranza per tutti. In questi luoghi il legante e il motore, è stata la tradizione, fatta più di abitudini che di principi. La tradizione era un principio, fatto di vite sovrapposte, di saperi trasmessi, che ora si sgretola perché non si trova menti, dita, luoghi in cui esercitare l’imperio del sapere antico. Ed è proprio questo imperio che si smarrisce, qui come altrove, perde la nozione di forza comune, finché il legante si scioglie e sulla riva, davanti a una casa, una donna si siede accanto ad un’altra. Parlano sapendo che il futuro è così vicino da confondersi con il presente, ed il passato, un amante a cui attingere per riempire i discorsi, anche se alla fine, opprime un po’. Parlano e guardano per pensieri brevi, quasi informazioni e sentenze.
E’ la stessa donna che ho fotografato un anno fa, oppure un’altra? In fondo non importa, è il gesto che scosta la tenda, la mano che ripara gli occhi dal sole che conta, il guardare me, foresto, eppure con lo stesso dialetto. I foresti ora restano poco, arrivano e vanno, prendono il sole, il mare, la spiaggia, l’aria, l’azzurro del cielo. Prendono, lasciano dei soldi e se ne vanno. Un tempo il foresto restava, raccontava di sè, imparava la lingua, aggiungeva parole e significati, lasciava le cose com’erano e, se pur restava foresto, diventava uno di noi. Così sembra pensare la donna finchè mi parla, e così pensa il pescatore che aveva il bisnonno nella imperiale marina Austro Veneta, così penso io che sono foresto e so che quel mondo è finito nelle sue gerarchie e priorità, lasciando le persone sui muretti e sulle soglie di casa. E so che questa generazione, sarà l’ultima, con memoria, poi sparirà anche quella. I ragazzi ricorderanno a breve, perché nessuno gli racconterà, e così saranno la scuola, i genitori, qualche amore, il bar a farla da padrone in un passato così breve che sembra antico già in una vita.
Parlando di queste cose con un’amico indigeno, alla fine è sbottato: a furia de pensar el çerveo te va in acqua (a furia di pensare il cervello ti va in acqua). Memoria d’acqua, per l’appunto.
Tornando ho visto l’insegna della antica trattoria La fazenda, è del 1973, un’eternità.

andarci in bicicletta è la mia passione. e poi i bambini che si tuffano dalla piazza d’estate, e le griglie fatte con i cestelli delle lavatrici, i bussolai, il caldo torrido e il vino bianco fresco. fra un po’ avremo la barca e anche la laguna sarà nostra, ehehehe.
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Arrivarci in barca, magari da Celeste, alla sera, in tempo per la cena, che meraviglia. Adesso e’tempo di moeche e ieri il profumo del fritto era una promessa.
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come una specie di sorriso.
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Mi piacciono le momorie d’acqua, a dimensione d’ uomo
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Trovo che questa tua riflessione sia molto bella ma nel contempo triste e malinconica.
Buona serata Will, ciao
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