Burning out

Lo scorso anno partecipai ad una giornata di approfondimento sull’usura da lavoro. I consigli alla fine della giornata, per evitare il burning out oppure uscirne, erano sensati: aumentare del 10% il tempo per sé, non pensare al lavoro fuori dell’ufficio, prendere pause brevi ed intense tra i periodi canonici di vacanza, ecc, ecc. Come tutti i consigli, erano buoni per chi li dà e ragionevoli per chi li riceve, ma finiva lì. Le cose ci riguardano quando ci siamo dentro, non prima, e dopo si dimentica. Per questo vorrei meglio capire il rapporto tra energia e decisione nell’affrontare il rischio, il nuovo. Quando sparisce l’energia e subentra la rassegnazione, ovvero quello che fa decidere ad altro e subire? Pur pensando di avere il controllo della propria vita e presente, le persone, i popoli si svuotano, perché?

Sintomi di burning out, singoli e collettivi. Nel vitalismo assunto a testimonianza che si e’ vivi, operativi come dicono i conformisti (sei operativo? sono operativo, sul pezzo, ma che vorrà poi, dire questo linguaggio da comandi militari in una vita in cui si è spesso guidati e condizionati da altri e in cui si fa quello che ci viene richiesto senza pensarci troppo?), non ci possono essere cedimenti nel ritmo. Casomai fallimenti, ma non domande. Il fallimento è contemplato, i cadaveri sono ammessi, a volte perfino, indicati ad esempio: non ha vissuto per sé, si è immolato. A chi? Perché?

Immagino una mappa per uscire da questa gabbia, e che parta dai propri veri bisogni. Una lunga striscia di carta, larga 21 cm, su cui annotare, come un tazebao, bisogni, fasi, rimedi, cadute, emersione dell’occultato e del disfatto dalla tirannia del fare. A margine, rimuovere costantemente la sensazione d’essere un pneumatico, servibile o inservibile ad un mezzo che deve correre. Perché vuol correre? Solo perché così ha senso, come le vite che vogliono dimenticare ? Cosa voglio dimenticare?

Nel tazebao distinguere quello che serve davvero, quello che è utile, quello che si deve fare perché c’è uno stipendio, una necessità, un ruolo. E poi confinare, perseguendo una vita che includa il benessere diffuso. Prendere spazi e silenzio. Con gusto bulimico togliere molto, vedere il moltissimo in più. Che neppure fa bene. Senza fretta, con tenerezza verso sé. Inventare un carattere idiografico che dica: basta saperlo, farne un sigillo e metterlo a fianco dei percorsi di questo sinusoidale vivere. Avete mai osservato che la sinusoide abbraccia e libera?

5 pensieri su “Burning out

  1. sono maestra nell’autoconservazione…il mio lavoro col tempo devasta chiunque…non sa dove fuggire…io lo faccio anche quando lavoro e la’..nessuno mi puo’toccare..raggiungere…ooohhh si…

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  2. boh, a me lavorare piace, sarà che ho fatto per sette anni la casalinga che è moooolto più usurante che lavorare, sei un fantasma se fai solo la mamma e stiri e cucini. è importante anche sapere cosa stai facendo, almeno per me, essere presente, mica come la vispa teresa.
    poi che si dica operativa o sul pezzo o è una che sa fare il suo lavoro e capisce quello che fa, it’s the same.
    prova a guardare i cinquantenni cassaintegrati fiat da un anno : hanno facce smarrite, colori smunti, sono in attesa che qualcosa cambi, intanto preparano il sugo e stendono la biancheria mentre la moglie lavora : chiedilo a loro, forse di tutto quello spazio silenzio tempo non sanno che farsene, forse è il loro incubo quotidiano.

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  3. Anch’io, quando mi ritrovo a correre senza fiato, mi domando: ma a che pro? perché mi sto annullando? per privilegiare cosa? per costruirmi un futuro, forse? Probabilmente ci accorgiamo poco che il futuro si costruisce col presente, con l’oggi… ma è anche vero che ci sono certe professioni che sono particolarmente stressanti. Io sto studiando e l’anno prossimo mi ritroverò a scegliere tra una prospettiva estremamente intrigante ma foriera di stress emotivo, e una prospettiva emotivamente più “easy”, ma che mi affascina leggermente meno…
    Vedremo…

    Un bacio
    e buona notte!

    Paola

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