Dove finisce la sottile linea del lecito nei sensi? Perché non c’ è solo il vedere di sguincio, ma l’uso di tutti i sensi: esiste un odorato indecente e un tatto voglioso, un udito pruriginoso, un gusto scostumato. E non è solo applicato al sesso, ma anche al voyeurismo che cerca le nudità, il carpire il nascosto, l’emozione morbosa. Il sesso che è cosa troppo vitale, allegra e seria, per confonderlo con la prudérie di derivazione post cattolica. C’è nel sesso, un gioco del mostrarsi che non è l’equivalente del vedere di nascosto. Una linea sottile del pudore dove ognuno lascia ciò che vuol far vedere. E la decenza implica il mostrarsi a chi può vedere la persona e non la superficie. Conta anche il contesto, una spiaggia nudista è un luogo casto, la casa e chi ha l’accesso conclamato al vedere intimo, sono luoghi senza vergogna, un amore è il contenitore d’ogni nuda intimità. Ovunque e comunque, il limite si sposta, parte dal morboso ed invade il quotidiano, l’immaginazione è molto più pudica di una rivista di gossip. Guardare dal buco della serratura e scandalizzarsi pubblicamente, come se il nome, il pudore, le voglie fossero scisse dalla stessa persona, è invece, l’evoluzione del senso deviato del pudore. Pudore è ciò che esercito su di me, ciò che metto in comune e non impongo, ciò che non uso a mio vantaggio. E il confine del libero esercizio d’ogni nudità va dal reale al virtuale. Come non si può imporre ad una persona d’essere nuda su una spiaggia, in un luogo, fosse pure una casa, davanti ad altri, così sarebbe una violenza nei confronti per chi è costretto a vedere. Allora il discrimine su cui corre la linea sottile del vedere è la libertà del vedere e dell’essere visti, in una sorta di patto reciproco e non ciò che si mostra. E questo limite mentale applicato secondo libertà e convenienza, quanto vale in rete? Quante nudità vengono esibite da quelli che non mostrano nulla di fisico e propongono il virtuale anatomico? Un tempo si parlava di comune senso del pudore, come fosse esistito davvero un codice comune che misurava centimetri di pelle, l’altezza dell’elastico delle mutande, il volume geometrico visibile della rotondità dei seni. Il limite era il capezzolo e il pelo che rispondevano ad una sbavante pruderie da astinenza. Allora il il nudo aveva odore di sagrestia, mentre c’era una bulimia del vedere e l’immaginare non aveva limiti. Ora si immagina molto meno e il superamento del limite sembra essere la misura dell’individuo. In ogni campo, politico, sociale, intellettuale, la proposizione di sé, è esibizione, muscolo guizzante ed oliato, nudità indifferente perché senza contesto. Allora perchè non dovrebbe essere spostato il limite nel cattivo gusto, nell’indecenza, nella parte sconfinata dell’ imposizione dei propri vizi come normalità? Lo spostamento del confine non riguarda più la nudità, ma un comune sentire che ottunde le teste e i corpi, li rende tutti simile, tutti esposti. La nudità indecente è debole, ma a chi serve? Certo non al sesso, mai così vilipeso e geneticamente modificato da togliere il gusto e lasciare l’involucro. Questo mi infastidisce e il mio pudore coincide con la nudità che dedico a chi voglio.
la linea sottile del pudore
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