da Cumbacarà a Dakar

Un ragazzo corre, reggendo sulla testa un bacile di carboni ardenti e lascia scie di fuoco nella notte. Cade una brace, lui la schiva con una mossa di ballo, e ridendo, si perde tra le case. Una ragazza vestita di rosso, chiede la carità, osserva, poi prende il carbone e comincia a lanciarlo in aria. Lo prende in mano, guarda la scia, lo riprende e lancia verso l’alto. E ride.

Questa è l’africa.

Questa è l’africa dei bimbi di Dakar e di Cumbacarà che già dormono nella stanza con le donne. Questa è l’africa che ha visto tornare la dengue con la stagione delle pioggie ed ora aspetta il vento del deserto per spazzarla via.

Questa è l’africa dei bianchi assieme con le ragazze ed i ragazzi, dei bungalow veri e di quelli finti, delle parole che suonano familiari, ma significano altro.

Questa è l’africa degli animali che mangiano le sementi e bisogna metterle sul tetto del thialy, questa è l’africa degli uomini che mangiano le sementi perchè c’è carestia e fame e non si ha tempo d’aspettare un raccolto nuovo.

Questa è l’africa dove l’acqua esce color d’argilla dai rubinetti e ci si lava pensando che è meglio che niente. Questa è l’africa dove la notte è filtrata dalle zanzariere e cola giù dai tetti assieme a rumori di uccelli e topi, finchè tutto si risolve tra squillar di galli.

Questa è l’africa dove il mare dà pesci a non finire per barche di legno con la prua a becco che odora di resina e vernice.

Questa è l’africa dove le buche divorano l’asfalto e le piste sono meglio della strada.

Questa è l’africa così colorata che pare sempre allegra, dove la miseria sfibra chi la vede e non toglie la speranza a chi la vive.

Questa è l’africa che non ha cartoline, che non è un pezzo d’atlante, che è il riso dei bambini che si vedono sulla digitale e salutano. Salutano quando arrivi e quando te ne vai e chiedono il tuo nome, non da dove vieni, e ti stringono la mano e ridono perchè ci sei. Questa è l’africa che si sovrappone alla vita conosciuta e  si capisce che non si è capito nulla, ma davvero nulla. Ed allora per salvarsi si cambia idea perchè bisogna fare, e poi si cambia di nuovo idea, di nuovo, finchè  subentra il rispetto, e finalmente si sta zitti finchè non cesserà la paura di sbagliare.

Da Dakar a Cumbacarà, Casamancã, al confine della Guinea Bissau, cosa cambia? In città manca l’albero degli antenati, l’albero magico che protegge gli abitanti del villaggio, l’albero dove si seppellivano i Griot, i cantastorie animisti che sapevano troppo ed avevano troppi dei per essere tollerati nei cimiteri monoteisti. Eppure l’albero non è sparito, è cresciuto dentro questo popolo che ondeggia e ritma sui Jembé improvvisati, che balla con i griot dal berretto crinato, che è animista anche con un solo dio e mescola colori, povertà, risate, speranze forti e lucide, come gli aspiranti lottatori che la sera si allenano sulla spiaggia, e si preparano per una competizione con un disegno chiaro. Un disegno che noi non capiamo più.

Appena fuori dagli alberghi, la vita ribolle, i bambini si affollano per un bonbon, una foto. i venditori offrono thè, arachidi, arance verdi, intrugli e schiuma di tecnologia. La notte è tiepida, ma dura poco per noi occidentali, indagatori su piatti di carne, riso e strane presenze che emergono da pertugi pieni di fuoco per essere serviti. Cosa c’è dentro, cos’è, com’è fatto? Poi gli interrogativi s’accantonano e avvolgendoci d’autan, i discorsi ondeggiano tra ciò che si è visto e il pensiero della malaria, della dengue, della febbre gialla, delle zanzare. Già, le zanzare che portano tutto quello che non piace e che preoccupano noi e non chi vive tutto l’anno in questa terra. Tra poche ore il muezzin inviterà alla prima delle cinque preghiere, e noi, nei letti umidi, ci chiederemo dell’inverno, dell’africa, del giorno dopo.

Noi, non loro.

Il capovillaggio di N’diaye N’diaye ha detto, prima di pregare per noi e tra noi, che l’uomo può solo sperare, ma non cambiare il corso delle cose. L’ha ripetuto anche ai tedeschi che gli hanno promesso l’elettricità: servirà, ma non è tutto. Dicono abbia cent’anni, non è vero, ma oltre ad un corano e un quaderno, usa la testa e la parola lenta, ricca di sguardi, per governare. Non chiede – e come potrebbe se tutto è tracciato – ma accetta, riflette e comunica la speranza ai suoi, agli anziani che gli stanno attorno, da pari, alle donne che pestano arachidi nei grandi mortai di legno, agli uomini tornati dall’estero per aiutare il villaggio. Dice che è passato sopra l’Italia, una volta, andando alla Mecca, che ha un figlio che fa qualcosa da qualche parte tra noi. Non sa dove, ma tornerà. L’Italia annega nel sole che entra dalla soglia senza porta, tutti ascoltano la preghiera, mentre la luce invade il letto, la zanzariera piena di buchi rattoppati, la crepa larga sulla parete di mattoni crudi. L’Italia qui non conta, l’italia siamo noi che siamo qui, chissà per cosa e chissà perchè, con i dubbi di chi capisce poco e non ha pazienza, ma siamo benvenuti.

E l’ha ripetuto più volte: benvenuti.

E sorrideva.