fuori dalla narrazione

 

Tra le parole di moda, emerge l’uso sconsiderato del termine narrazione. Nel senso di raccontarla, sempre e comunque, di spiegare ciò che è sotto gli occhi e che dovrebbe essere di per sé evidente, ma che narrato evidenzia il proprio senso. Come fossimo tutti bambini privi di codici interpretativi ed incapaci di vedere davvero.

Ed io esco dalla narrazione che non implica fatica, perché ognuno deve vedere con i propri occhi, trarre le proprie conclusioni, commettere i propri sbagli, non farsi assolvere da chi gli racconta la vita. Soprattutto la propria.

Come la mettiamo con l’insofferenza crescente, con il non poterne più, con i lacci e la costrizione propria ed altrui, con le false libertà che non durano oltre il piacere, con gli anni che pesano quando si apre il vuoto, indipendentemente dal loro numero. Insomma come affrontiamo il senso vero della vita che non può essere narrato perché o si vive o non significa nulla oltre l’illudersi.

2 miliardi di persone davanti allo schermo e la considerazione era: significherà pure qualcosa per queste vite che guardano. Questa è la narrazione, ovvero ciò che queste persone non avranno mai, quello che è irraggiungibile, che non distingue tra sogno e favola.  Ed è qualcosa in cui ci si può identificare senza fatica, anche se non cambia nulla, contrariamente al sogno che ci modifica e porta oltre. Oppio per non vedere la propria storia.

Mi interessano le storie vere, quelle che non si possono narrare facilmente, perché sarebbero tremendamente banali senza la persona che emerge, ma appena indagate, divengono incredibili, perché fatte di realtà, intrise di quotidiano e memorabili. Molti anni fa vidi un film giapponese, che rappresentava la vita di una persona attraverso una camera fissa aperta. Una giornata senza copione, solo scorrere del tempo e così densa di tempi morti da far emergere l’ansia che accadesse qualcosa. La collegai a ciò che dice Ullrich nell’ uomo senza qualità, quando pensa di vivere come in un romanzo, per cose notevoli. In entrambi gli estremi, la narrazione è impossibile, dovremmo arricchirla di contorno, deviare l’attenzione, perché il pensiero si distolga dalla consapevolezza di essere. Insomma parlare d’altro per parlare della persona e di ciò che sente. Provate a raccontare una fotografia, rendere i particolari, e poi, passando alla persona, dirne il pensiero, l’umanità. Difficile, se non si mostra la foto, e qualunque cosa si dica sarebbe infedele rispetto all’oggettività dell’immagine, tenderemmo ad arricchirla per interessare, modificando la realtà. Quel che ne esce, non è la foto o la persona, ma la nostra capacità di suscitare interesse, fascino.  

Cosa c’è di umano nello spettacolo se viene semplicemente narrato? Nulla, è prefigurazione d’altro, che dev’essere vissuto in sé per diventare sentimento, forza ammissibile e fuorviante. E sogno che si materializza.

Tra le capacità somme del premier c’è la capacità di raccontarla, di narrare. Ogni seduttore conosce il valore della narrazione, ma fugge il superamento della seduzione, ovvero il suo gradino più alto, che è la prova del vero attraverso la critica e la sua condivisione. L’eros. Il disvelamento della qualità oltre l’apparire. Se io ti vedo come sei, non posso raccontarti, ti devo vivere. E così il superamento della narrazione è il momento in cui si piega l’acciaio, si modifica il sé e il presente, non ci si accontenta più. Materia incandescente che può sfociare ovunque: nel volo insperato, nella disperazione, nel cinismo, nella vita consapevole, nell’euforia, nell’entusiasmo. Tutti gradi di consapevolezza dove il narrare è messo da parte e subentra il vedere. Duro, trasparente, tenero, irto ed ustionante. Generatore sommo dell’essere, della sua continuità e del suo moltiplicarsi.

La narrazione se non infiamma d’entusiasmo, se non rende tangibile il mutamento, se non fa compiere balzi, se non rompe consuetudini, paradigmi, lacci, se tiene queti, è oppio. Per questo non vorrei narrare, perché il senso, quello che si sente, non può essere narrato, si può esibire, mostrare, additare, ma per essere condiviso chi lo legge, deve sentirlo e tradurlo in sé, trasformarlo in cosa propria tanto che diventi sua storia. Questo è il mio limite, non narro e non suscito. Non come vorrei e nel senso di incompiutezza mi fermo. E con pazienza, mondo la narrazione, la sua tentazione, dal dire. In cerca dell’eros. Ovvero della condivisione. E l’eros non è narrazione.