Ogni mia penna stilografica ha una personalità. Ci adattiamo entrambi ai rispettivi caratteri, e se voglio cambiarla quando non mi segue, la devo trattare con dolcezza. Alla fine so che lei sarà l’impronta della mia mano. Per imparare a convivere bisogna sperimentare assieme gli aggettivi, le parole obese di vocali che aiutano i repentini cambi di tratto. Chi scrive con una biro non sente che la mano accompagna le anse, le curvature. Con la stilografica e ancor più con il pennino intinto, è come usare un pennello, bisogna dosare la forza per trovare la giusta dimensione del segno. Quando giocavo a biliardo qualcuno mi spiegò che per essere bravi, bisognava avere la geometria e la fisica dentro, la mia testa immaginava traiettorie, la mano seguiva effetti, il braccio misurava la forza ed i risultati erano spesso deludenti. Solo quando lasciavo che la mia parte zen prendesse il sopravvento, subentrava lo stato di grazia e le palle seguivano il fine trascurando i mezzi. E allora la partita non m’importava più, m’interessava il gesto armonico con il risultato e il momento diventava l’assoluto. Così mi accadeva con la scrittura: riconquistavo i pennini senza averli mai davvero abbandonati come se gli anni della prevalenza della biro fossero stati un interludio dettato dalle competizioni che regolarmente perdevo. Continuava a vivere quella parte di me che si ostinava a conservare i ricordi, che metteva da parte la comodità. Anche se ne posseggo diverse non ho l’animo del collezionista di penne stilografiche e di strumenti di scrittura, semplicemente ho il senso dell’inchiostro. Delle carte che assorbono ed amplificano il pensiero, dei pennini che sono al servizio delle parole. Viaggio quando scrivo e scrivo quando viaggio e mi piace viaggiare, scegliere il mezzo. Ci sarà pure una corrispondenza tra il mio piacere nel camminare e nello scrivere con la stilografica. E come tutti quelli che amano qualcosa, ho preferenze, non mi piacciono le personalità facili in ciò che comunica con me, alcune penne le usa da 40 anni, di loro conosco tutto, ma quelle che mi sfidano sono quelle che non hanno ancora un’impronta. Pennini aristocratici troppo duri e pieni di sé, con tratti indecisi per scarsa fluidità, oppure pennini senza personalità, macchine da consumo che non vogliono dire chi sono. Con questi scrivo, trascuro la tastiera, faccio doppie scritture, guardo la pagina alla fine, cercando di cogliere l’ordine complessivo. Il testo sono io, ma anche le righe, i caratteri. Lì si nota una stanchezza, qui un furore, le t non sono state tagliate, le asole delle g trascurate, gli accenti si confondono con i punti.
Devo confrontare due pagine, nell’una il mare di caratteri si è gonfiato, ha preso la mano, è scorso mentre le guance s’arrossavano. La scrittura ordinata si è mossa con folate di vento interiore che la spostavano, per confluire in un golfo, dove si è quietata. E’ rimasta in attesa, non conclusa dopo il punto. Pronta a ripartire. Segno che il pensiero dipanato ha evocato altro e sollecitato nuove curiosità. Nell’altro foglio la scrittura è fluita, ma trattenuta. Si vede che pensieri laterali l’attraggono. Deve conservare un ordine, portarsi verso una conclusione. Potrebbe essere una relazione o un racconto a tema, il suo percorso è circolare, punteggiato di pensieri, i caratteri si staccano netti come se le parole fossero funzionali e non creature guizzanti. Guardando da distante, i fogli senza rigatura rivelano ordini diversi. Cerco il senso degli spazi, i silenzi che alimentano il mistero. Nel primo foglio gli spazi sono irregolari, in alcuni punti la scrittura si è arrampicata di lato per non passare alla pagina successiva. Dei rimandi interpolano le parole, ma gli spazi evidenziano una crepa che segna il foglio dall’alto verso il basso, come una discesa nel proprio deimos. Nell’altro foglio gli spazi sono più larghi, silenzi direzionati per raccogliere le forze verso il passo successivo. Come per le nuvole si può leggere una faccia, un animale, un sogno: era quello che veniva tenuto a bada e che esce come può.
Gli inchiostri diversi hanno marcato la differenza iniziale, il nero blù per la scrittura a tema, il tabacco per quella più libera. Il tempo ossiderà entrambi e scivoleranno verso quel grigio che mi piace così tanto ed è il colore del ricordo leggibile, ma che non pesa.