Col tempo si cambia anche negli oggetti dello scrivere. Adesso il mio formato di pagina è l’A 4. oppure l’ottavo di folio, il pennino preferisce il tratto medio, l’inchiostro grigio azzurro o l’avana. Sciocchezze, si dirà, eppure non tanto, dipende dalla testa credo, dalla disposizione, luogo, destinazione e dimensione delle parole, dei pensieri da scrivere. I formati più grandi esigono fantasia, libertà della mano, lo scorrere senza tema e fretta, ma soprattutto assenza di paura del bianco e del vincolo del contenuto. Nell’A 1 e ancor più nell’A 0, in assenza di un progetto, le parole si aggiungono in un collage di tratti, pensieri, colori, ma serve un tavolo, un posto fisso dove la carta, come fosse un muro, possa restare a lungo ed attendere interventi successivi. Per l’uso “portatile”, per lo scrivere, disegnare, intersecare appunti, ordinare i pensieri, va bene lo spazio medio del 210×297 .
Anche questo spazio, apparentemente conchiuso, consente notevoli libertà. Si può scrivere una semplice riga a metà pagina, contornandola di bianco, si può segmentare di testi ed intersecare di colori e caratteri, si può immaginarlo come una libertà che dalla testa continua sulla materia, quindi senza grandi vincoli.
Nello scrivere preferisco non avere un angolo canonico d’inizio, spesso inizio in alto a destra ad un terzo di pagina, ma non necessariamente. Ci sono dei rimandi, tratti diritti che traspongono verso frasi in altre parti del foglio, se si leggesse con attenzione si vedrebbe il percorso del pensiero che scarta, si muove a salti, poi si riordina. Non bado molto alla scrittura, ha sue abitudini, a volte la guardo dopo e l’osservo come muta con il tempo e l’umore. Mi piace il tratto più ampio, il carattere non piccolo, ma neppure grande, la mano che scorre libera come dipingesse. Ubbie che costano poco, manie.
Scrivere sul foglio bianco è bello, com’è bello sentire la docilità del pennino, in queste settimane sto usando una Omas, pennino medio, caricata con inchiostro grigio blù. Le aste delle lettere sono verticali, il foglio è leggermente sghembo, le righe di parole, diritte. Ci tengo alla scrittura orizzontale, penso rifletta come sono verso l’esterno, il nodo interiore dipanato e steso, le asole e le aste senza fronzoli. Non è una scrittura puntuta, è morbida, un po’ gonfia di parole che si aggiungono, ma che si possono scarnificare fino al limite del senso comunicativo. Togliere parole e aggettivi esige eguale impegno del gonfiare le frasi, in realtà il pensiero è lo stesso, solo che a volte serve una caraffa di succo per dissetarsi e a volte basta il profumo di un estratto. Credo ci sia un adattamento progressivo biunivoco, ovvero le parole, le frasi indossano il pensiero e questo a sua volta si conforma, cosicché quello che alla fine ne esce è nuovo, e se si evita la forma come prigionia, la sostanza ne viene arricchita.
Forse.
p.s. dai miei lontani trascorsi chimici, emergono ricordi: la tintura mi piaceva poco. Era aggressiva, con una personalità serva e forte, esigeva un uso, tingeva la pelle e le superfici, intaccava. Quelle poche volte che ho fatto degli inchiostri, la evitavo perché troppo violenta. E neppure le essenze usavo, pur sapendole generose, restavo sul confine tra vegetale e minerale, e i risultati erano incerti, però unici. Ubbie, appunto.