un momento che vedo

io: Buon giorno, sono… potrei parlare con il dottor … ?

voce: Buon giorno. Un momento che vedo…

E inizia l’attesa che poi potrà finire in un colloquio o in un rinvio. Ma ciò che m’interessa è la dimensione sensoriale di questo vedere, che realizzerà o meno il colloquio. E immagino che un momento che vedo sia una presa di coscienza diretta, una responsabilità che esige una verifica. Allora credo che la voce si alzi, bussi ad una porta e non si accontenti della voce, ma voglia proprio vederLo, e solo  dopo averne costato coscienza ed esistenza in vita, gli dirà che sono al telefono.  Una verifica tomasiana quindi, che però esclude il tocco, il tattile, che non prevede il risveglio o lo scuotimento per attrarre l’attenzione. Non ho mai sentito nessuna voce che mi dicesse: un momento che lo tocco. Piuttosto dicono: un momento che sento, ma non credo che si riferisca al toccare il desiderato,  piuttosto credo sia una ricerca, un chi l’ha visto tra colleghi, oppure un udire il suono oltre la porta per certificarne la presenza.

Esiste una logistica degli uffici. In fondo sono tutti uguali, e anche quelli che se la tirano, sono uguali. Front end, video (per fare tecnologia), vetrocemento (dà luce e separa), bancone, receptionist sempre al telefono che con le mani fa tutt’altro, alle pareti colori pastello o forti, neutri o marmorizzati, a terra, legno, tappeto, non tappeto, marmo. Sono solo materiali è tutto uguale, ovunque. Ma da quella fortezza Bastiani si apre un dedalo di luoghi: uffici, corridoi, pareti attrezzate, open space, stanze. Però, comunque e ovunque, la segretaria del capo è sempre nell’ufficio a fianco del suo, con porta comunicante. Quindi chi risponde è vicino a chi voglio, e il vedere non è un vedere, ma sta per: sento se ti vuole parlare nel senso che glielo chiedo e poi una balla da dirti la inventerò. Tutto sommato un eufemismo banale, invece a me che aspetto se lo vede o meno,  piacerebbe che davvero, la voce, andasse a vedere  e che gli uffici fossero un mare da solcare fatto di teste e tavoli, con un coffiere che scruta come in Moby Dik a cui chiedere. E coffiere dalla vista acuta che, se per caso lo vede, grida : soffia, soffia. Così penso che sarebbe bello un capo che soffia, per dimostrare la forza in sé non quella di sopraffazione, un capo arpionabile, ma anche riottoso e competitore. Ma il coffiere non c’è e neppure il capo che soffia, così il vedere è solo un sentire, e questa confusione di sensi è già un mistificare le cose.

Mi direte che tutto questo è un pretesto, un gioco. E’ vero, ma perché non si è più diretti? Mi piace molto ad esempio chi dice: non può parlarle. E ancor di più chi dice: non la può ascoltare, anzi non vuole proprio sentirla. Mi disturba invece chi si trincera dietro qualcosa che non posso verificare, che mi rifiuta prendendomi per incapace di capire che si può non aver voglia di parlare con me, oppure di non parlare in generale. Per questo m’ irrita chi eccede in questa direzione e chiede : mi dica l’argomento ... Questo mi fa andare in bestia perché vorrebbe sottoporre ad un giudizio di terzi qualcosa di cui volevo parlare con una persona precisa. Per questo il più delle volte rifiuto di dirlo e ribadisco la richiesta di colloquio.

Signorina, il mio argomento è mio e non ha bisogno del suo giudizio d’importanza, al più potrebbe dirmi di scriverlo, ma non di affidarlo a lei per una sua valutazione. Se così fosse basterebbe parlarne tra noi, e invece lei non può decidere e se non può decidere, perché dovrei dirle di cosa si tratta davvero?