In estate in città, la sera si andava in birreria. Anche per noi bambini, c’era un sorso di birra con l’anice e la spuma nera con pevarini o i zaeti. Biscotti al pepe i primi, con farina di granturco, pinoli e uvetta, i secondi. Un biscotto, non un vassoio!
La birreria era vicino al palazzo di Ezzelino il balbo, in pieno medioevo cittadino. Al centro c’era un banco quadrato di marmo e poggiapiedi d’ottone. Salendo sul poggiapiedi si potevano mettere i gomiti sul freddo del marmo tra i laghetti di birra spanta. Ed immergersi tra le spine lucenti, i grossi bicchieri col manico, la schiuma, i barili di legno e l’odore dolciastro/amaro dell’orzo e del luppolo. Uno spettacolo di odori, tatto e gusto per tutti cinque i sensi.
Mia nonna chiaccherava con le amiche, noi giocavamo sulle piazze. Secoli di storia ci guardavano mentre noi ignari, li adoperavamo con gessetti poco rispettosi. A settembre, con la macchina del nonno, saremmo andati a Pedavena, alla birreria. Sarebbe stata una giornata da ricordare fino alla primavera successiva. Appena arrivati, i grandi cercavano posto all’ombra, sui grandi tavoli di pino, poi salsicce e salumi, spezzatini e patate, in quella cucina austro ungarica che i più vecchi consideravano parte dell’identità, mentre ridevano, commentando il secolo che correva. Noi piccoletti, curiosi dei daini in gabbia, delle montagne incombenti, del verde assoluto del parco, avremmo sciamato in una corsa senza fine.
Ovvero una fine ci sarebbe stata, verso le quattro con pane e soppressa, poi ancora due ore di gioco prima del ritorno e il sorso di birra e anice.
Quando l’ho chiesta l’ultima volta, il barista cinese non capiva, poi dal retro è venuto un mio coetaneo, che m’ha guardato, dicendo: la bevo anch’io, era trent’anni che non la sentivo chiedere.