raccontare

Potrei raccontarti della morbidezza di luglio, dei vestitini di cotone e delle scollature a balconcino, potrei dirti dei reggiseni lenti e dei corpi teneramente dondolanti. Potrei parlarti delle cannottiere a costine, dei calzoni senza tasche, a zampa d’elefante. Ti intratterrei sulle espadillas di corda, sulle superga bianche, sui costumi coi laccetti, sulle argentine sfilacciate, zuppe di sudori e voglie. E racconterei di motorini con le teste ribassate, di unghie nere di morchie di catena, di zoccoli prima del dottor scholl, di sabbia abrasiva tra le dita in sandali mendaci. Vietnamiti dicevano e non era vero, ma Giap vinceva gli americani che ancora non capivano. Anche gli ebrei in sei giorni vincevano le guerre  e la pace non sarebbe venuta in 40 anni.  Questo l’avremmo capito tutti molto dopo. In spiaggia arrivava l’eco di Praga, chi aveva visto ponte Carlo parlava del teatro delle ombre, delle birrerie dove si scambiavano desideri, libertà raccontate, simpatie, amoretti tra birra non pastorizzata e ristoranti con il vecchio nome francese del servire il cibo: buffet.  La piscina teneva banco in città, con il cloro a larghe mani per disinfettare incontinenze allegre, tornavamo con gli occhi rossi di lupi in bicicletta, ma prima c’era l’odore dell’acqua di canale tra naso e bocca. Tuffo in fiume e poi in piscina, per un coraggio che quel bikini a pois rossi non vedeva mai. Bastava socchiudere gli occhi, lasciarsi abbronzare mentre un disco seguiva l’altro. Sempre gli stessi sino a diventare rumore di fondo. Sabati al mare su schiuma d’acqua senza goletta verde, l’attesa del fresco della sera, il buio, le paure di crescere e di restare al palo.