la banca delle capre

Questa storia nasce diversi anni or sono, nel sud del Senegal, la parte più povera del paese, nel villaggio di Cumbacarà. Questo villaggio, della provincia di Kolda, è al confine con la Guinea Bissau, ed è la sede della comunità agricola che raggruppa 23 villaggi. Quando parlo di villaggi, parlo di aggregazioni di capanne di paglia e argilla, senza energia elettrica, senza acqua potabile, con al centro la spianata per le riunioni e l’albero della comunità. I villaggi hanno pochissime strutture in muratura, a Cumbacarà c’è un piccolo ospedale che da noi sarebbe più o meno un ambulatorio e che serve una quindicina di villaggi. La popolazione dei villaggi è variabile, può andare dalle  poche centinaia di persone alle decine. A Cumbacarà la vita è quella del Senegal più povero, soggetto a carestie, emigrazione e desertificazione, la stessa che avviene fuori delle città e di Dakar. La giornata è scandita dalle necessità: l’acqua, il cibo, il lavoro agricolo, i bambini, gli anziani, la vita di relazione e l’affetto di chi non ha e che si vede ben presente come legante familiare e comunitario. La mancanza di autosufficienza alimentare, oltreché dal clima è determinata dalle massicce coltivazioni di arachidi per far olio e burro da esportare. Adesso si aggiunge la minaccia di coltivazioni di biocarburanti, che in un territorio pur fertile, espone costantemente alla fame e alle malattie. In particolare i più colpiti sono i bambini, ma anche la struttura sociale, le leggi interne alla comunità, i diritti di genere, sono fortemente condizionati dai bisogni primari. Un agronomo, Ndiobo M’Ballo, nato in questo villaggio, ma che aveva avuto modo di lavorare per le organizzazioni internazionali, pensò che dedicarsi al suo paese, al suo villaggio, alla sua gente fosse una buona scelta per la seconda parte della sua vita. Ha fondato una ong di diritto senegalese e sulla base delle necessità più impellenti, ha cominciato ad agire partendo dall’osservare quello che facevano le donne per affrontare i problemi quotidiani. Una delle prime idee per combattere la fame e per fornire alimento ai bambini, si basava sul fatto che la soluzione doveva essere compatibile con il territorio e disponibile tutto l’anno. Sempre osservando il rapporto tra donne, problemi e ambiente, puntò sulle capre che già c’erano, facili da pascolare ed autosufficienti, e al contrario dei bovini, mangiavano di tutto. Così nacque l’idea che fornendo due capre femmine ed un maschio per due anni, ad una donna che ne facesse richiesta, si poteva dare latte naturale ai bambini, avere una piccola certezza di sussistenza, consumare la carne quando la capra in eccedenza veniva macellata. Alla fine dei due anni la donna doveva restituire due femmine e un maschio dell’ultimo parto. Sì, perché le capre figliano tre, quattro volte all’anno e alla fine dei due anni, la donna poteva avere un piccolo gregge. Così è nata la banca delle capre, che adesso può contare su un circolante di oltre 1800 capre e che si incrementa ogni anno, solo che stavolta gli utili restano nei clienti e la banca si accontenta di essere parte della crescita della comunità. Le capre sono state acquistate con fondi che provengono da donatori, anche adesso stiamo facendo così per incrementare il circolante, grazie a persone che hanno voglia di investire a fondo perduto qualche euro, più o meno una decina  a capra, su un progetto concreto, senza costi di cooperanti e strutture, e quello che si dà va a finire sull’obbiettivo. Ogni anno un gruppo di sostenitori, a proprie spese, va a controllare come funziona il tutto, incontra le persone, ascolta le necessità, dibatte, cerca di capire. Capire non è facilissimo perché bisogna spogliarsi della nostra testa e della tecnologia che risolve tutto. Lì tecnologia non ce n’è, a parte i telefonini che stranamente ci sono dove pure non c’è acqua potabile ed energia, e le soluzioni che sembrano facili, in realtà sono sciocchezze perchè non fanno i conti con il clima e le infrastrutture inesistenti.  Ma prima di fare strade e ponti, bisogna sfamare le persone puntando non sugli aiuti esterni, ma sull’autoproduzione, sull’auto sostentamento. Questo fa l’ong 7 A Maa Réwée di M’Ballo e non è l’unica sua iniziativa. E’ stata attivata la banca delle sementi che evita la dipendenza dalle multinazionali che forniscono semi sterili geneticamente modificati, c’è un mulino diesel, e adesso punta al secondo in un altro villaggio, per macinare senza spaccare mani e braccia alle donne con i mortai, c’è una sala parto arrivata dal Veneto, pozzi e orti che stanno crescendo per il fabbisogno quotidiano, una risaia che contiene anche l’acqua nella stagione delle piogge. Assieme alle iniziative è nato un piccolo commercio gestito da donne nei villaggi, e con questo, oltre la piccola indipendenza dai maschi, anche la richiesta di imparare a far di conto e di leggere e scrivere. Purtroppo è fallita la banca delle galline, per una moria da infezione, ma credo che la cosa si riprenderà. Tutto questo, con gradualità, muta i rapporti nei villaggi, le donne sono molto coscienti del loro ruolo, anche politico oltreché sociale, le ho viste con i miei occhi e sentite, difendere il ruolo e i diritti. La pratica dell’infibulazione è arretrata tantissimo, man mano è cresciuta la coscienza di sé e del proprio valore, la barbarie tende a scomparire. Basta confrontare i dati con i villaggi della Guinea Bissau, che sono ad appena a 10 chilometri, per accorgersi cosa può fare una piccola indipendenza economica femminile. Perché il dato più importante, accanto alla diminuzione della mortalità infantile, è proprio questa nuova coscienza delle donne che ha rimesso in moto una società bloccata, in cui le stesse donne chiedevano ai figli di emigrare, piuttosto che vederli in balia della fame vicino a casa.

L’equazione è: alimentazione autoprodotta dalle donne=>  maggiore protezione dei figli=> maggiore consapevolezza del valore =>richiesta dei diritti che tutelano la persona.

Chissà se sono stato chiaro? Comunque il 4 gennaio ci torno e poi vi saprò dire.

9 pensieri su “la banca delle capre

  1. chiaro e forte. conosco quei villaggi, in kenia, ma i villaggi poveri africani si assomigliano tutti. all’inizio di questo blog facemmo una cosa fantastica, eravamo un gruppo di persone che non si conosceva, eppure raccogliemmo un po’ di soldi per un progetto di preti di bolzano che costruiscono pozzi : da qualche parte, in africa, c’è un pozzo che si chiama minnie…
    mi piacerebbe ci fosse pure una capra, in fondo sono del capricorno..tra sorelle ci capiamo :)…….fammi sapere quanto costa una capra, o un quarto..oh, poi glielo dici quando vai che si chiama minnie ehhhhh…………

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  2. Sei stato chiarissimo, mi sarei stupita del contrario casomai. Un bellissimo progetto willy, soprattutto perchè puoi toccare con mano i risultati. Se la capra non costa troppo, potrei farci un pensierino anch’io
    facci sapere 🙂

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  3. Altrochè se sei stato chiaro, Will!
    Complimenti ammiratissimi per il vostro lavoro!
    E tienici al corrente, che ci interessa molto questa iniziativa!
    Buona serata, ciao ciao

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  4. grazie per le vostre parole, vi dirò cosa costa effettivamente una capra. Ci sono aspetti allegri nel cercare di fotografare le capre per i donatori, anche la volta scorsa me l’hanno chiesto, ma le capre vanno in giro spesso da sole. Nei villaggi le cacciano perché si mangiano anche i tetti delle capanne, quindi bisogna cercarle al pascolo dove spesso sono i bambini ad accompagnarle, alla fine si trovano sotto alberi perfettamente rasati alla loro altezza e bisogna dargli un nome, magari non è proprio la tua, ma è quella del tuo compagno, oppure di un amico, però la tua c’è eccome se c’è…

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  5. ma una capra di nome minnie sarà la più leziosa di tutte, con i fiocchetti in testa 🙂 mica una sciacquetta qualunque o un caprone puzzone ….si vede willy che non t’intendi di capre , tzè.

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  6. Penso che anche una capretta che si chiami Ondina non starebbe male in compagnia di una di nome Minnie, che ne dite? 🙂

    Fornisci, Will, le dritte per provvedere …

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