Dovevo incastrare le parole nella testa, tenere il minimo lasco tra le immagini, le sensazioni che si accumulavano via via, con le parole che conoscevo, la sintassi, gli accostamenti. Le parole che conoscevo erano il mio mezzo per andare oltre la superficie, far transitare il mio significato. Non con il pretesto di stupire, ma perché era lo sfrido tra parole e senso, il guinzaglio con cui ci si portava a spasso, che doveva essere posto in tensione per ricreare in piccola parte quella tensione-sensazione che si voleva comunicare. Questo comportava tagliare le scorciatoie, i luoghi comuni propri, saturare un modo di pensare e poi abbandonarlo, come se si gettassero via i proverbi, le citazioni troppo usate, pezzi di poesie troppo frequentate ed ormai sterilizzate, gli incipit dei libri, tutto per tenere con gelosia ciò che era stato formazione per metterlo in discussione e farlo lievitare in qualcosa che fosse nuovo e vecchio assieme. Sentivo -e sento- che solo cercando il piacere del significato potevo portarmi vicino a ciò che mi passava per la testa e che altrimenti, lì sarebbe rimasto confinato con il risultato di pullulare, generare circuiti ridondanti, una prigionia interiore senza grido liberatorio. Che poco di quello che pensavo fosse interessante o nuovo, certamente lo sapevo, anzi lo scoprire che qualcosa nato nella mia testa, era anche nato altrove, che le coincidenze fossero così sorprendenti da far pensare una sovrapposizione di teste per un attimo, mi stupiva così tanto da essere ancora più meravigliosa del nuovo. Sentivo di far parte di un tutto più grande, di una comunità che, pur senza conoscersi, da condizioni diverse arrivava allo stesso punto. E che fosse accaduto in passato e così si ripetesse la magia dello stesso pensiero che arrivava alla stessa consapevolezza era altrettanto meraviglioso. Che questo accadesse nella ricerca scientifica mi sembrava naturale, l’oggetto da scoprire era lo stesso e il fatto che gruppi di ricerca ci arrivassero assieme era possibile, anzi quasi una sorta di equità degli sforzi convergenti, ma io trattavo di cose personali, sui sensi che tutti possediamo, senza una particolare intelligenza. Lavoravo sulla mia stranezza, che stranezza per me non era, ma per altri poteva essere e non dovevo mimetizzarla troppo, ma viverla usando più piani comunicativi, uno del lavoro, delle comunicazioni di servizio, e l’altro riservato al mio tempo -che magari libero non era- ritagliando oasi di significato, di comunicazione profonda verbali o scritte per me stesso e ciò che sentivo. Era inevitabile che i piani si mescolassero e che nel fondersi, le parole diventassero improprie e necessitassero di altre parole per essere spiegate, finché ho accettato che prevalesse proprio il significato e che chi aveva voglia e tempo, capisse e gli altri lasciassero perdere. In questo mi sento un apprendista calligrafo virtuale, che non consegna scartafacci di parole ordinate o di stili, ma che è, a mio modo, l’evoluzione di questo, ovvero colui che usa la parola come un segno che contiene, e il significato, per quanto possibile, coincida con il segno e diventi un ideogramma. Mettere assieme ciò che sento e il contenitore, costringe ad una approssimazione, ma anche ad un ragionamento, ad una scelta che scarta, in continuazione, ciò che meno si avvicina, oppure se il sinonimo non soddisfa doverlo circoscrivere portandolo, verso un nuovo significato, spiegarlo e possedere una nuova parola da usare con circospezione, ma effettivamente nuova. Con queste premesse è evidente che non si poteva parlare sempre a tutti e che il limite del comunicare era chiaro a me, prima che allo sbadiglio degli altri. Ci si fa una ragione di tutto ciò e parlare a chi ascolta, diventa naturale, accettando i pochi. Anche il silenzio accettando, perché è un atto di piccola violenza, il voler comunicare ciò che si sente e non ritenere che per accoglierlo, dall’altra parte ci sia meno, che un gesto di lieve amore, di interesse, di accettazione di un confronto.
Caro Willy,
mentre ti leggevo lo sterno mi è sembrato più leggero, il respiro più fluido.
Un lampo di lucidità nella testa.
Grazie
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E’ COSI’.
Spinti da un’irrefrenabile impulso che viene dal basso e passa al centro e alla testa si ferma quel tanto che basta per consegnarlo al vento che un “viandante” NON frettoloso e amante dell’ozio lo raccoglierà facendolo suo con la stessa meraviglia che l’ha generata.Buon proseguimento di giornata caro raccoglitore di “preziosi” comuni.Bianca 2007.
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Tu continua con la TUA “dolce tirannia delle parole” 🙂
da parte mia continuerò ad interessarmene (del resto, e lo sai, lo faccio già da un paio d’anni)
spesso anche in silenzio ma sempre con attenzione e curiosità,
rammaricandomi, per l’inevitabile confronto, 😦
della mia grande inettitudine con l’arte della scrittura. 😦
Sereno dì di festa Will, ciao 🙂
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Condivido quel che hai scritto sulla tirannia delle parole, tranne l’ultimo passaggio, quello della scelta del silenzio. Le voci discordanti sono spesso più utili e significative, per la propria e altrui comprensione, di quelle che concordano in toto e il “lieve amore”, in queste lande desolate che sono i blog, mi sembra un terreno scivoloso, troppo per fondarvi un sereno confronto (se è il confronto che cerco…).
Mi piaci perché ti piaccio, è infantile, almeno così pare a me. “Accettare i pochi” lo comprendo, se questo ti fa stare bene, ma mi sembra riduttivo, così come “scartare” chi ha sensibilità diverse, e le esprime.
Ho l’impressione che molti di noi considerino il loro blog come un piccolo reame, sul quale regnare, decidere della vita e della morte dei viandanti che, casualmente, finissero per entrarvi e decidere di fermarsi per osservare. Tu sei gentile e accogli tutti, certo, ma scegliere il silenzio=indifferenza/insofferenza/inconsistenza a volte è peggio che affrontare un sano confronto, correndo anche il rischio che possa diventare uno scontro.
Lo so, stili diversi, i nostri.
Si scrive soprattutto per sé stessi (nel senso che il fine ultimo è esprimersi, per scandagliarsi, comprendersi) o per gli altri.
Io appartengo alla prima categoria. Non mi aspetto nulla e nulla chiedo, nemmeno di essere letta. Semplicemente, sto. Non mi sottraggo al confronto, non temo il giudizio, non mi interessa il seguito. Questo mi fa sentire libera da obblighi di frequentazione, di lettura e di commenti. Infatti eccomi qui. 🙂
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Nel silenzio c’e violenza come nell’amore
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