Guardo edifici incompiuti, gli scheletri verso la sera e le luci gialle di cantiere, le gru arrugginite dietro recinzioni sfondate e cartelli illeggibili. M’indignavo fino alla sofferenza quando mi raccontavano degli abusi, delle furberie, della violenza di chi sa come uscire dai gineprai senza danno. E dal mio ufficio potevo solo dire di no, porre dighe che sarebbero state scavalcate al prossimo giro di walzer. Il ricordo mi prende alla gola, spengo i fari, accosto, mi fermo.
La ragazza cammina sul bordo della strada, il corpo in avanti, col viso che si vede appena tra il berretto calcato e la sciarpa colorata. Ha passi decisi, evita l’erba bagnata del fosso e l’asfalto. Ha costruito un percorso sul ghiaino. Il marciapiedi non è mai stato fatto, segno di oneri non onorati di imprese fallite, ma neppure serviva, qui non cammina nessuno. E’ sola tra le fabbriche e la città, in luoghi senza regole dove non dovrebbero esserci persone a piedi. Qui si passa in macchina o su mezzi veloci, non si cammina neppure di giorno, l’insicurezza è nell’aria che inghiotte la lentezza.
La ragazza ha una direzione, una meta, un pensiero. Potrebbe essere una ragazza dell’est, una badante giovane, una ragazza mollata su un marciapiedi dopo un rapporto. Una figlia di qualcuno in città che ha scelto di sbattere una porta d’auto, una ragazza in fuga, una donna che sa dove andare. Alle spalle lo scheletro del fabbricato fuma: qualcuno passerà la notte tra cemento e cartoni.
Non sopportavo i racconti interessati, le delazioni, come non le sopporto ora. Venivano di pomeriggio, avevano chiesto appuntamento, oppure semplicemente s’infilavano nella porta aperta. Li guardavo, sapevo che di lì a poco la miseria, il veleno, il fango, m’avrebbe investito e nella mia testa, persone conosciute, luoghi, pezzi di piano regolatore sarebbero cambiati. Li avrei difesi per quanto potevo, negando, affermando, tacendo, non assentendo, dimostrando di non sapere, ma dopo chi era stato evocato non sarebbe stato lo stesso. Il peggio veniva quando abbassavano il tono, accennavano a pratiche risolte e non onorate da ex colleghi , ammiccavano, insinuavano. Non di rado li ho cacciati, accompagnati alla porta mentre alzavano la voce, minacciavano. Li invitavo ad andare in procura, Chiudevo la porta, mi sedevo e guardavo il grande quadro davanti a me. Vuoto, vuoto. E mi chiedevo…
Il tratto tra l’ultimo cantiere e le case è campagna, ma non è lungo, la ragazza rallenta. Guarda le luci delle finestre, dentro ci sono colori pastello, qualche albero di natale, sagome che si muovono veloci. Sono villette, case a schiera, c’è molto verde attorno. Camini che fumano, il rito del fuoco d’inverno. La ragazza ora è ferma, sulle spalle ha un piccolo zainetto, accende una sigaretta. Guarda. Nella sua testa si fa largo la situazione, il posto, la distanza rispetto ad una sicurezza, il bisogno di luce e calore che porta la notte. Non mi vede, fuma, ma non compie i gesti che fanno parte delle nostre relazioni con il mondo: non prende un telefonino, non guarda lo schermo, non guarda verso l’alto finché telefona, non batte i piedi per il freddo, non attende. Si è tolta un guanto e fuma. Vorrei avvicinarmi, chiederle se ha bisogno di qualcosa, guardare assieme a lei le luci gialle dei cantieri, ascoltare le parole fluenti o stentate, vedere lo sguardo impaurito che si rasserena, tenerla con le parole, non con le mani, dirle che benvenuto è solo una parola.
Vengono ancora da me, sono i meno informati, quelli che non sanno che non conto più nulla oppure quelli che pensano che per chi c’è stato, non finisce mai. Quelli che basta una telefonata, che adesso hanno l’affare della vita, il parente bravissimo ma sfortunato, la figlia che ha studiato tanto ed ora non sa cosa fare, il lotticino di terra scordato nell’ultima variante. Oppure semplicemente vogliono parlare, sentire la loro voce che li racconta, li tratteggia, fornisce la dimensione delle vite nascoste in case che non voglio immaginare. Parlano di sé, degli altri che li hanno segnati, usano parole sfumate, a doppio senso quando insinuano, sorridono, ma non hanno cattiverie forti, m’indignano poco, piuttosto tolgono le forze della speranza. Come vengono da me andranno da altri, parleranno male di me come adesso fanno di altri. Forse con gli stessi. Devono avere una memoria formidabile per ricordarsi tutto quello che dicono, che hanno detto e a chi l’hanno detto. Sono dotati di un senso del relativo che li rinnova ad ogni incontro, quando tornano a casa salutano la moglie, i figli, si siedono a tavola, accendono il camino, guardano la tv, telefonano, vanno a letto, ogni tanto fanno all’amore, rimuginano i torti, promettono, minacciano, scappano.
La ragazza si è rimessa a camminare piano, è indecisa se immergersi tra le case oppure proseguire sul bordo che è diventato marciapiedi. I lampioni si sono accesi da poco. Quando è successo ha alzato il mento, si sono visti gli occhi, la bocca, il naso, li ha guardati a lungo, finché il freddo non ha abbassato il viso nella sciarpa. Si vede che ha bisogno di calore, mi avvicino, le chiedo se posso essere utile. Mi guarda, scuote la testa. Insisto, conosco il posto. Mi chiede dov’é la fermata dell’autobus per la città. L’accompagno, non è distante, potrei portarla in macchina, ma si farebbe una domanda che non voglio. Le offro un cappuccino finché attende, poi la saluto quando parte. Sorride. Non so nulla, non ha detto nulla. Torno verso la zona industriale, guardo gli edifici incompleti, sento il freddo che entra sotto il piumino.
Anche se le dighe sarebbero state scavalcate al successivo giro di walzer, hai fatto benissimo a dire di no. E a cacciare.
Hai fatto il tuo dovere, hai fatto quello che era nelle tue possibilità per opporti.
Mai smettere di indignarsi, altrimenti sarà la fine.
I miei complimenti!
Nonostante tutto, buona domenica Roberto, ciao 🙂
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Fare quello che si sente giusto è il minimo quando si amministra cosa d’altri. Non è un vanto, ma di quel territorio ho avuto responsabilità, ho fatto errori senza vederli, non ho capito, altre cose sono state buone, hanno prodotto frutti. Quello che mi prende non è il passato, è il presente, l’umanità che si aggira per questi luoghi, il non senso di tanti proclami, il senso di freddo e di paura che sento venire da queste persone.
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non ho dubbi che tu abbia fatto il meglio possibile, e capisco che comunque tutto non si può fare, che rimanga sempre la sensazione di una certa impotenza anche e sopratutto a chi lavora in buona fede..
sto vivendo di riflesso la fatica di chi deve amministrare, sempre difficile, ma in questi tempi quasi impossibile da affrontare. gente seria io sò che c’è, e non mi piacciono il facile qualunquismo ed il disprezzo che in questo momento inondano tutto…tutto…!
bravo Roberto, quasi un “corto”, questo bel post.
…perfetta la scelta musicale delle “luci”…a me care.
sul mensile “rumore” novembre 2010 è apparso un bellissimo articolo “ferrara rumorosa” che parla di brondi, illuminante sulla realtà della mia città e sulla “ferraresitudine”, che rende particolarmente difficile governarla.
…e penso valga per tutte le città di provincia, come la tua…
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CHI HA LA TUA
sensibilità,si farà sempre una domanda:”WERE YOU THERE” con la responsabilità di risponderle senza alibi alcuno o la paura d’ammettere la propria vigliaccheria fatta passare per impotenza per problematiche piovute solo dal “cattivo” cielo.Bianca 2007
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Racconto intensissimo, permettimi.
C’è un punto in cui tutti i tentativi si sbiadiscono in una insanabile estraneità.
Forse un punto di inconscia, momentanea solidarietà tra le persone.
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Già Rob, è proprio così, c’è una terra di nessuno, dove può succedere qualsiasi cosa e a volte entra dentro con sofferenza.
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Ottima scelta Vasco Brondi. 🙂
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