Era il parroco d’ una chiesa inesistente, ridotta ad un cumolo di macerie da un raid alleato che aveva polverizzato il Mantegna più bello fuori Mantova, Guariento, Padovanino e chissà quanto d’altro. Mi raccontavano da bambino, che c’erano scaglie di colore dappertutto e che gli uomini di cultura della città, raccoglievano assieme a chi appena sapeva di quegli affreschi, inseguendo la speranza di conservare e ricomporre chissà come e quando. Ne fecero decine e decine di casse di pezzi d’affresco e calcinacci, in attesa d’ un miracolo che ricomponesse quello che era definitivamente perduto. Mi raccontavano anche di chi si portava a casa un tòco del Mantegna, un pezzo di testa, una mano e chissà cosa. Tanto ormai erano solo ruinassi, rovine.
Era diventato parroco di quel disastro, con la pena di vederlo ogni giorno. Cumoli di detriti, legno, vetri a piombo e mattoni, il soffitto a carena di nave rovesciata distrutto e incendiato, i muri perimetrali implosi. Ma intorno era peggio, la guerra era finita ed aveva distrutto anche dove le case erano integre; la città faticava a ritrovare un senso comune. C’era la miseria del dopoguerra, la prova della speranza che ogni giorno se inzegnava a mettere insieme la settimana. Fedeli poveri accanto ai professionisti che avevano conservato i patrimoni, famiglie che erano solo nei registri parrocchiali, presenze punteggiate di assenze.
Mio padre era comunista e quando chiese cosa dovesse per il mio battesimo, il prete gli rispose : gninte, el xe el me mestiere. Mio padre ne fu colpito, era lo stesso motivo per cui lui, che vedeva il mondo ingiusto e irreformabibile, che aveva respirato l’ineguaglianza prima e dopo il fascismo, pensava che ci fosse un ruolo per ciascuno, che il lavoro era dignità ed andava fatto bene. Questa impressione di prete diverso si accrebbe quando mia madre riferì in casa che all’arrivo della madonna pellegrina, che passava di parrocchia in parrocchia come argine al comunismo, il prete prese con sé la madonna e la portò in chiesa e poi disse alle donne: ‘ndé via, casa, le donne poe pregare anca casa, xe note, basta cussì. E si chiuse in quel poco di chiesa che gli era rimasta. Erano solo le nove di sera.
I poveri venivano ogni giorno, dava tutto quello che aveva, le tonache erano sempre più rattoppate, la perpetua c’era a tratti, anche i cappellani duravano poco: problemi di sostentamento. Insomma anche il prete era povero nonostante fosse una parrocchia del centro. Ed era anticomunista.
Lo ascoltavo nelle prediche, parlava della minaccia atea, gli uomini di azione cattolica distribuivano giornaletti ferocemente anticomunisti. Io leggevo il Pioniere, anziché il Vittorioso e non mi vergognavo per niente. Non provava a cambiarmi, si accontentava di questo ragazzetto che aveva i calzoni troppo corti d’estate e che combatteva battaglie con le pigne nella chiesa, dentro al cantiere. Capivo che tra lui e mio padre, avrei scelto mio padre, ma m’ incuriosiva questo anticomunismo del prete povero. Mio padre non parlava e quando proprio doveva, diceva che era un bon omo. Era il massimo, includeva la stima ed il rispetto. Avevano solo idee diverse, ma il prete non si approfittava del ruolo che gli dava la società. Capivo che c’erano due società che si compenetravano, che il comunista e l’anticomunista si potevano rispettare. Che il prete faceva il suo mestiere e che in questo aveva incluso l’anticomunismo, ma contava quello che faceva più dei pochi dubbi che mi creava.
Ero andato via da poco quando un giorno, mi dissero che anche lui se n’era andato. La chiesa era stata ricostruita, gli affreschi erano definitivamente perduti (adesso c’è una ricostruzione che fa capire cosa si sia davvero perso), il delitto perpetrato non aveva possibilità di essere ricomposto, ma pur vuota, la chiesa era davvero bella e la gente della parrocchia aveva ritrovato un benessere da città. Il suo mestiere di prete lo portava altrove, aveva chiesto di andare a passare i suoi ultimi anni, non in una parrocchia più ricca, ma al Cottolengo per dare una mano.
Me lo sono portato dietro così, anche negli anni furiosi, anche nell’ateismo ostentato, come una traccia buona nel mondo, come un anticomunista senza tornaconto, come la dimostrazione che l’idea non toccava l’uomo e non bastava appartenere ad una parte, bisognava essere uomini. Na degna persona, diceva mio padre. Ed ho imparato più sensibilità per gli altri da quell’anticomunista che nei periodi di occupazione dell’università. Da lui e da altri distribuiti su fedi molto pratiche, ho capito senza smettere di appartenere, come il separarsi dalla politica per riunirsi nell’uomo era il modo per riconoscere davvero gli altri. Testarli dove il bisogno annullava la definizione di parte e restava solo l’appartenenza al genere: quello umano.
non c’è che dire: hai toccato il centro nevralgico della questione umana
alzare barriere, costringersi in ideologie, è sempre riduttivo dell’Uomo (uso la maiuscola, per intendere la specie umana e ovviamente il genere femmnile)
saggio è colui che si offre per la persona che è, aldilà di ogni definizione
saggio è colui che accoglie senza chiedere
di questi tempi è una necessità troppo spesso misconosciuta
(bel post)
"Mi piace""Mi piace"
Ciao Willy, questo post è vero e toccante. Al di là degli schieramenti e delle scelte “na degna persona” questo è quello che conta. Questo è quello di cui abbiamo bisogno oggi: saperci riconoscere in uomini degni.
"Mi piace""Mi piace"