Chi sono gli sono gli sconfitti delle lotte e delle vittorie sociali degli anni 50’/70′? Gli operai che votano lega? Gli impiegati e quadri che votano Berlusconi? Oppure la sinistra attuale con i suoi birignao e l’incapacità di leggere la realtà? Tutti questi e il paese che arretra nei diritti comuni ed eguali. La scuola, la sanità, l’assistenza, il lavoro e i suoi contratti, la stessa funzione del produrre sono oggetto di erosione. Manca un futuro condiviso, il perché si sta assieme. Nella mia testa si fa strada il pensiero che la sinistra come l’ho conosciuta abbia assolto il suo compito più facile e su questo sia collassata. Il compito di affrancare i molti bisognosi, trasformare le lotte in benessere diffuso, accompagnarle con diritti che sembravano inalienabili. Così i braccianti ed i mezzadri sono diventati coltivatori diretti, gli operai, artigiani e poi piccoli imprenditori. Le ‘500 sono diventate medie cilindrate e suv, i figli sono andati all’universatà. Placando il bisogno primario è implosa la solidarietà. Quella sinistra è finita, non il bisogno e l’ingiustizia, ma la sua capacità di renderli problemi comuni, condivisi. Al resto del paese poco importa quello che accade a Pomigliano o a Termini Imerese, questioni locali che se diventano nazionali avranno una attuazione differente a seconda dei territori. Anche la disoccupazione, il non lavoro, la precarietà sono diverse: dipende da dove si nasce o si vive. Leggere la realtà non come snobbettini che hanno comunque il sedere al caldo, ma come parte di una comunità che ha un presente o un futuro. Ha ragione Blair, si parla troppo di Berlusconi e non del progetto del cambiare ciò che non va bene. Ciò che è stato devastato nel senso comune dovrà essere recuperato, ma non come prima. Oggi, in questo paese che è ridicolo solo agli occhi di chi non ha interesse personale, ricostruire una coscienza collettiva sui valori, è impresa immane. Ma bisogna pur farlo, partendo da ciò che c’é, dalle paure e dalle (poche) speranze. Allora era magico dire: le lotte operaie. Si teorizzava il sapere senza università, adesso abbiamo l’università senza sapere. La coscienza di contare era così diffusa che gli operai democristiani discutevano sulle opere pubbliche. Non i comunisti, i democristiani! L’idea di non avere un futuro che cresce per tutti, è questa la vera sconfitta. Poi la deriva è il lasciarsi andare quando il naufragio non ha terra all’orizzonte. Si muore così, ricordando ciò che è stato, ciò che poteva essere e la speranza lascia prima il cervello, poi le abitudini e scivola dalle mani.
penso quelli che sono passati a berlusconi. che tristezza aver avuto un sogno e finire al grande fratello.
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Condivido e mi soffermo sulla speranza e faccio un passo indietro e mi domando: è una questione circoscrivibile al Bel Paese o una condizione umana, uno specchio dei tempi, da qualunque parte si punti il telescopio?
La speranza, sotto certi aspetti, è inversamente proporzionale al benessere. E’ una tensione verso una dimensione nuova con cui si dialoga tanto più facilmente quanto più forte è il bisogno di raggiungibilità di un altrove. Così nella vita, così in politica. Oggi, almeno noi dei paesi industrializzati, siamo viziati dal piccolo delle cose e vi viviamo immersi, affiorando sempre meno a cercare il grande lontano dei sogni audaci, come cetacei che hanno dimenticato d’ essere mammiferi. Dimenticato l’ossigeno.
E questa credo sia la grande contraddizione: più la scienza allarga gli orizzonti, più l’uomo si restringe in sé, inauguando stagioni oscure, d’impoverimento culturale e morale. Stagioni in cui il sedere al caldo è già di per sé un valore fondante. Non cambierà la politica se non cambierà l’uomo. E l’uomo cambierà solo tornando a volgere lo sguardo verso l’invisibile.
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