E’ bionda come solo i popoli del nord-est sanno esserlo, i polacchi e i russi in particolare. Ha una coroncina di fiori in testa, intorno le autorità, nel corteo verso la chiesa. La banda suona durante la messa, e davanti all’altare, addobbato con fasci di spighe, ci sono i dolci, il pane, i fiori, le messi da benedire. E lei. Riti arcaici, inglobati nel cristianesimo, rimasti oltre ai popoli, quasi prescindessero dall’uomo. Perché sarebbe così, e lo sappiamo, le estati avrebbero comunque colori, fiori e frutti, anche senza i nostri occhi. Forse questo riconoscono le biologie sociali dei riti arcaici, che le religioni rispettano e li sentono precederle nel rispondere ai bisogni ancestrali dell’uomo: il cibo, la riproduzione, l’amore, la prosperità, la continuità del ciclo del tempo che non deve finire. Avere tempo, come continuità superiore e connessa alla vita di ognuno ed il ripetersi delle stagioni, delle attese positive, è questa continuità proiettata oltre il giorno. Qui si sono alternati i tedeschi, i polacchi, i danesi, gli svedesi, di nuovo i tedeschi e i polacchi. Nessuno di loro sapeva bene chi era davvero, le famiglie si mescolavano, il biondo dei capelli screziava e il bianco della pelle scuriva. Neppure i nazisti erano ben sicuri delle ascendenze e, se potevano, sorvolavano. E i riti, più forti delle stragi, venivano ripetuti: le messi, i pesci, il pane, i fiori. Tutto benedetto ed asperso e condiviso con la donna giovane a testimoniare il rito di fecondità.
Anche il nome di queste terre evoca suoni antichi: Pomerania. Il Baltico, le foreste immense, l’Oder, la sabbia grossa, le lagune, la pioggia a folate ed il sole a seguire. Qui gli uomini baciano la mano alle donne e stringono forte quella dei maschi. I ragazzi si ammucchiano negli angoli delle feste, tra birra, zuppe di patate e pesce affumicato. Il sindaco del paese, in maglietta sotto la pioggia, serve in tavola, balla, canta e ride tra la gente, non c’è potere, la prosperità è di tutti.
Nowe Warpno, Dobra, Police, il fiume, la foresta che entra in città, arrivare a Stettino. Il suono italiano della parola fa ritornare ai libri di storia, al rumore degli stivali chiodati, al fumo delle navi e della pece. Il nome polacco è uno scioglilingua, ma venendo dalla Germania, come d’incanto, la frenesia d’occidente si attenua, i parchi sono pieni di mamme giovani e coppie di ragazzi, è come se l’europa avesse rallentato e pensasse a quanto sta accadendo, al senso della corsa. I caffè sono pieni di parole, di gesti senza fretta. Tra poco il sole accorcerà il tramonto e le notti saranno più fredde e luminose. Appena fuori la foresta è immane, perdersi sarebbe letale e pur ad un passo da un media center, ci si accorge che si è smarrita la gestione dei pericoli, e che non erano tali, in evi ancora vicini. Da qui si può tornare a Berlino, a Lubecca, a Vilnius, a Varsavia oppure mettere la prua al Baltico. Un bolognese, a Dobra, m’ha detto: son venuto qui, seguendo una donna. L’ho pure sposata. Si può andare, restare. Io sono rimasto. Dipende dall’inquietudine. E l’ha detto con quella cadenza emiliana che un polacco non potrà mai capire, ma che si sentiva, aveva tolto la nostalgia.


non so perchè ma mi vengono in mente, leggendo quei nomi, le guerre, i soldati, le ss, i campi. E’ passato, lo so. Polnischer Korridor. Che magari manco è vicino a Stettino.
Chissà per quale associazione d’idee m’è venuto questo commento…
buona notte, roberto.
qui è tutto così complicato….
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