polenta

La mia polenta non sapeva di fumo.

Per me, bambino di città, far la polenta era un rito ben diverso dai camini di campagna: non c’era fuoco a vista, solo stufe a legna e carbon coke e piastre incandescenti e cerchi che si toglievano per porre in equilibrio, il caliero sulla fiamma. Mia nonna ci teneva ad essere cittadina, aveva girato il mondo avvedendosene poco, portandosi dietro essenza ed idee, lingua ed abitudini. Chissà come faceva a far polenta e gnocchi in Germania – perchè sono sicuro che la cucina l’aveva seguita – per fare casa là dove si era, per trasmettere al marito e ai figli la sicurezza di esserci davvero al mondo. Anche in questi posti dove parlavano e mangiavano alieno, loro erano veneti. Loro. E molti anni dopo, anche per il piccolo che sgranava gli occhi all’altezza del tavolo, la cerimonia della polenta era un rito che faceva casa. La farina di mais, rigorosamente bianca e fine,  molita di fresco e scelta con cura, da sgranare nella mano sinistra, il caliero sul fuoco, il sale pronto (chè la polenta insipida è bestemmia), poi la prima aspersione di farina, sull’acqua ancora tiepida. Mia nonna leggeva cose strane, per me incomprensibili in questo primo velo di farina nell’acqua, io chiedevo e lei mi parlava di freschezza, di grumi,  ma secondo me leggeva altro. Comunque tutte cose con significati in divenire. Non è forse così che si imparano le cose che si respirano? Non per intuizione subitanea, chè quella si deve scrivere altrimenti si perde, ma per strati progressivi come per una vernice marina in grado di resistere agli insulti suadenti del salso e della smemoratezza. Al bollore, il sale e poi iniziava il trasferimento sapiente della farina racchiusa nel pugno e lasciata scivolare con scia sottile nell’acqua. La mano destra muoveva un mestolo particolare, quasi un bastone, da impugnare con decisione. Farina versata lentamente in sinuose circolarità, e mescolata sempre nello stesso senso: orario. Il punto di sapienza era nel finire l’aspersione di farina con la giusta consistenza della polenta di pianura: morbida , ma non troppo e più o meno con la densità che stacca appena dai bordi. Si mescolava con pazienza per almeno 45 minuti, chè la polenta cruda va bene per gli animali. Infine il trasferimento dal fuoco al tavoliero, un piano circolare di legno che non mancava mai in nessuna casa e rigorosamente riservato alla polenta. La nonna col dorso di un cucchiaio bagnato, dava forma circolare alla polenta, la plasmava, dopo, sotto, sarebbe stato passato il filo che avrebbe assicurato magiche fette regolari, senza coltelli a toccare quella che doveva sembrare una torta. A me veniva riservato lo scrostare il caliero e quelle croste tostate erano una leccornia senza alcuna similitudine di cibo. Quando arrivarono i kellogs, in casa si tentò un confronto, ma non era possibile. Dov’era il sapore di bruciato, la croccantezza e la morbidezza assieme?. La polenta solidificava e nel frattempo le pietanze con toci (sughi), venivano messe nei piatti ad immergere le fette. Tocio e poenta, poenta e tocio, contava il tocio, la carne o il baccalà erano quasi in più. La polenta residua, tagliata in fette regolari dal filo e messe ad asciugare, sarebbero state coperte con un tovagliolo, pronte per altri usi di cucina. Con lo zucchero, nel latte caldo, sulla stufa a grigliare per unirsi a salame fresco o formaggi dell’altipiano. La polenta seria la faccio ancora così e per quanto strano sia, la mano di mia nonna la sento ancora stringere la mia mano piccola, che voleva provare. Fasso anca mi, nona. Aveva mani forti e belle mia nonna, lei così piccola rispetto a me, mani da carezze avvolgenti, mani che creavano casa.

Solo non so leggere la farina appena aspersa, non ci vedo il futuro e neppure il presente.

5 pensieri su “polenta

  1. Come disgiungere polenta bianca e nonna,non nonne, perché una sola ne ho conosciuta e tanto frequentato, quella paterna, figlia di un socialista al confino(da qui la sua incrollabile fede politica nonstante tutto…) e di una madre forse morta giovane, certo presto assente, tanto che la nonna si considerava orfana e abbandonata, senza riferimenti femminili. Comunque la sua polenta mi ha accompagnato per tutta l’infanzia e la giovinezza quando andavo da lei a confidarmi, perché la mamma era malata…polenta abbrustolita, polenta fumante appena spianata sul tagliere (quello suo lo conservo e lo uso tuttora io), polenta nel latte. Proprio così, polenta rigorosamente bianca. La polenta della mia nonna.

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  2. ALTRO RICORDO BELLO
    e inmitabile del rito del far polenta,m’hai riportato o Willyco.Che mia Madre esempio alto e simile mi diede e che io piccola piccola cercai cercai di prendere il suo posto al pentolon della farina versata come sapiente pioggia per non crear li grumi ma…Lei inimitabile restò.Io sol l’spirazione ad esserlo.Con tanto affetto attorno a quel picciol picciol desco.Bianca 2007

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  3. noi qui all’ovest la polenta la facciamo gialla. morbida mordida, e la si mangia in vari modi..un piatto con pezzettini di burro e formaggio grana sopra, un piattino fondo con la polenta caldacalda e latte, un piatto con il pollo o il coniglio al sugo, un piatto con piccoli pezzettini di formaggio fontina,gorgonzola, tome di alpeggio, che si fondono dentro la medesima ed è una cosa da godimento massimo…:))(poi scoppiamo come palloncini)
    la polenta bianca non l’ho mai mangiata, un paio di volte la taragna, ma non è morbida come quella gialla..
    mangiare di gente del nord, contadini..ma per me polenta vuol dire neve, perchè quando nevicava e tornavi a casa per pranzo c’era sempre..era mia mamma che si ricordava i suoi genitori e nonni..noi, bambini di città, mangiavamo senza ricordi.
    però adoro la polenta : sarà il pezzo di dna delle nonne di mondovì che gira nel sangue..

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  4. Al sud c’è quella in scatola, come il riso o la pasta. A me piace molto condita col sugo, ma soprattutto soffritta.
    Ovvio che da noi manchi quella ritualità che accompagnava la preparazione della polenta là dov’è nata, però abbiamo in comune il “tavoliero”, che qui si chiama “tavoliere” ed è di forma squadrata. Tavoliere perchè siamo pugliesi?

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  5. Da noi si usa farina gialla (ma di un giallo scuro, tipo integrale, meno raffinata di quella che usualmente si trova in commercio)
    prima di cominciare la farina dovrebbe essere setacciata col tamìss
    ma il caliero si chiama paròl
    il mestolo si chiama canaròla o triss (dipende dai luoghi)
    il tavoliero si chiama tabièl
    quando pronta si affetta esclusivamente con il filo;

    e la polenta la prepara mio marito 🙂
    quando ero piccola era la mamma che la cucinava, la nonna paterna è morta prima che io nascessi, l’altra preparava ottimi gnocchi di pane e patate … 🙂

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