la solitudine del coro

La solitudine spinge verso l’altro, è un motore dell’uomo, una condizione sottotraccia con cui misurarsi e vivere. Ma solitudine è anche  difficoltà di comunicazione profonda, delusione per l’immagine che di noi ci viene restituita, la distanza sbagliata in cui le traiettorie si spengono. Quindi la solitudine è una buona maestra, ci aiuta a capire noi stessi, ma al tempo stesso viene abborrita. Perchè? Ma soprattutto, cos’è davvero solitudine per me?

Per rappresentarla devo adoperare un’altra parola e sovrapporla: la solitudine vera è il vuoto. Il vuoto di presente e di futuro, l’incapacità di provare interesse, di porgere una mano, un gesto. Il vuoto che risucchia l’acqua sporca dei pensieri neri assieme al cervello. Questa solitudine è la disperazione d’essere amati, è il vuoto comunicativo amoroso che impedisce di essere e di fare. Credo che adoperiamo molti succedanei per evitare di parlare della solitudine del vuoto. Sono attese stremate di soluzione, si identificano con la solituine fisica, con l’amore scambiato malamente. Esemplifico: l’amore asimmetrico è comunicazione sghemba, fa star male entrambi, spesso non ha soluzioni, ma non è solitudine, non è vuoto. E’ una mancata rispondenza tra attesa e soddisfazione, e pur possedendo una sua dose di comunicazione, la svalorizza e la sente inutile.  Non ci si adatta alla condizione che ha a che fare con il possesso, si vuole la piena rispondenza al proprio desiderio, e trascurando di ascoltare l’altro, questa mancata rispondenza spesso misura la disperazione.  Non viene capito il perchè l’oggetto amato non risponda alle attese e soprattutto perchè non provi le stesse cose, con la stessa intensità. Tutto questo confonde e si scambia insoddisfazione con rifiuto, possesso con amore  e si pensa alla propria solitudine, ma questa non è l’esperienza del vuoto.

La meditazione è una disciplina del vuoto, ma chi medita non è solo, anzi è così pieno di presenze che riesce a scorgere le cifre profonde di sè, quindi fare vuoto è una pratica che conduce alla conoscenza, mentre essere vuoti porta alla disperazione. Qual’è lo iato che divide queste esperienze? Provo a dare una risposta personale: il vuoto della meditazione aspira l’universo dentro di sè, il vuoto della visione del presente e del futuro, espelle tutti da sè. L’uno è accoglienza, l’altro è repulsione. Passare dall’una all’altra esperienza significa rovesciarsi: accogliere e non essere d’altri contrapposto al rifiuto dell’altro mentre se ne avverte il bisogno spasmodico. La solitudine del meditare è scelta consapevole, bisogno di raccogliersi per accogliere. E non ha nulla di religioso codificato, lo può fare un agnostico come me, perchè è attenzione a ciò che si è. Una persona mi ha detto: non mi tradirò mai più, credo sia una consapevolezza da vuoto che si è rovesciato, un processo appreso in cui si è identificata e che non permette la solitudine.

Prestare attenzione a sè sembra difficile in questo momento in cui sembra più importante ciò che viene letto di noi e quanto questo coincida con l’immagine gradevole codificata che si poggia sugli aggettivi: spiritoso, intelligente, bello, giovane. Ma diminuendo l’ansia compensatoria dell’essere visto, il bisogno di approvazione, ascoltando e vedendo oltre l’apparenza, la solitudine scelta riacquista verità e dà forza anzichè toglierla. La solitudine del coro, per l’appunto.