il fulvo minotauro

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Il minotauro osserva pensoso la riproduzione del labirinto sul pavimento. Medita sulla solitudine, sulla sua vita che scorre tra gole di necessità.

Fuori c’è  libertà, di correre, vedere, di ricordare la fatica precedente e confrontarla con l’attuale. Qui, tra le mura del ricordo e dell’inedia, c’è solo consuetudine.

Fuori.

Oltre le mura ocra e rosse del palazzo, oltre il patio, la luce dall’alto, oltre le parole solidificate sui muri.

Oltre.

Ma attende.

Il minotauro spera, spesso sogna, ma soprattutto attende. E’ l’intelligenza che attende, non la bestia, non il destino segnato dal genere. E’ la specie che aspetta di far riconoscere la propria specialità, le fattezze da indossare per essere tra gli altri, amato.

Ed intanto investiga il rumore che sente, lo decodifica: è l’ignoto che bussa o il padre?

Chi mi generò non sapeva chi sarei stato, non seppe vedere, non volle.

Chi è Arianna e chi Teseo?

Come un filo rosso dipanano i giorni, la minaccia del tempo senza scoperta, e resta quel labirinto da decodificare per l’uscita.

Saper andarsene è simmetrico all’incontro, è il labirinto che cessa d’essere tale e conduce al proprio destino.

Il destino per capire i giorni come il filo rosso, che vede e non capisce, ma il minotauro non prova, attende paziente la conoscenza per uscire. E correre, ed essere stanco per poi riposare. E confrontare il riposo e la stanchezza, i sogni e la realtà.

Il minotauro non sa che attendere è la morte, che svuota e non perdona.