Poggiato sul pavimento della parte dimenticata dell’ambulatorio, c’è un grande quadro che occupa l’intera parete. Occupa e si nasconde dietro a barelle, lettini, schedari al limite dell’uso. Su un lato della stanza c’è una tenda di plastica verdina che occulta uno scaffale, zeppo di cartelle cliniche, ach’esso. E’ tutto così miserevole, da essere assonante con la condizione di dolore, presente od atteso, che sosta nel corridoio. In questo insieme il quadro perde la sua immagine e diventa esso stesso residuato d’ un momento di salute, forse di un convegno, in cui si è celebrata una qualche gloria di reparto. Poi, nessuno si è presa la responsabilità di lasciarlo al suo destino, così è stato inventariato, il che significa farlo nascere, ed sta attendendo. Attende come i pazienti del corridoio, umanità su sedie blù, che vorrebbe un suo Van Gogh, per cogliere l’aria di solitudine e la richiesta di compagnia che aleggia. Il quadro, è un acrilico, e pur senz’ essere bello, ha una sua presenza incongrua e tranquillizzante. Forse è in forza della prima che esercita la seconda. Raffigura un atollo senza tempo con una visione sul pelo d’acqua e così si vede sopra e sotto. Ci sono enormi pesci pagliaccio, altri pesci colorati e tartarughe e delfini. Sulla mezza distanza, balene soffianti e altre sagome di grandi pesci che nuotano in una laguna immensa. Ai lati palme ed una foresta che sconfina sul limite dell’acqua. Sullo sfondo, dei vulcani attivi, ma con pendici verdissime. C’è una forte sensazione di vita, l’idea di una natura che pullula e si risana e confluisce scambiando tra stati di materia e di vita. L’idea di catastrofe che un fossile porta con sé è assente, come fosse un mondo perenne, senza dolore apparente e senza l’uomo.
Mi guardo attorno, ci sono diversi stranieri. L’indigenza, la privazione ammala, in questi posti si acuisce tutto, anche l’attesa. Nel mondo colorato di blù che ho davanti sembra non esserci né attesa né estraneità, pur essendo molte le specie. Non c’è memoria di fatica, nel quadro. Ecco qual’è la dissonanza: nel mondo di natura la fatica non ha nome. Mentre la storia dell’uomo trasmette memoria di fatiche, eroismi, imprese, dolori immani. Sembra che la gioia sia un fatto personale, come la felicità, e che l’età dell’oro sia una memoria di assenza più che un ricordo indeterminato, come se l’umanità, in uno sforzo corale immaginasse un destino positivo e comune e lo facesse prima sogno e poi realtà. Il quadro toglie illusioni, lo stato di natura semplicemente è, non assicura felicità, al massimo permette di essere come si è : preda e predatore allo stesso tempo.
Più lo guardo e più mi piace questo pannellone che pare un salvaschermo. Chi l’ha dipinto aveva una visione caramellosa, ma distaccata. Come avesse indicato un’alternativa, senza curarsi troppo d’essere ascoltato. I muri attorno sono scrostati e sporchi, le porte scompagnate dai troppi interventi manutentivi. Gli ambulatori negli ospedali diventano labirinti scuri, man mano si aggiungono competenze e specializzazioni che cercano spazi e sedie in corridoio. Nel quadro invece, c’è luce, è un pomeriggio per la luce calda e per il fervore che accompagna la laguna, quasi una corsa al cibo prima della notte.
Non c’è molto da attendere, non sono neppure il paziente, però è strano che in questi posti il tempo abbia carattere ondulatorio: si scivola tra attesa e frenesia, ma in realtà l’uomo negli ambulatori è un corpo estraneo. Come nel quadro. Forse per questo è qui, perché in questi posti siamo tutti estranei, stranieri e il quadro è in disparte. Se l’artista avesse voluto l’uomo, seppure piccolo e impaurito, l’avrebbe dipinto, ma qui tutto ciò che ha anima, non ha un posto, forse per questo l’aria è pulita, i pesci giocano nell’acqua calda difesa dalla barriera corallina ed un senso di curiosa pace accompagna chi lo osserva. Immagino che fosse alle spalle della presidenza del convegno, dopo il primo sorriso di compiacimento, tutti avranno fatto l’abitudine, magari alla fine qualcuno si sarà lamentato, che c’era un’aria di salute malata, di salute per forza, una debolezza che se qualcuno ci crede, alla fine saremo fottuti. Per questo si terranno le acque inutili e consolatorie, nascoste dietro alle barelle rotte, e agli schedari, come un immenso salvaschermo per ingannare l’attesa, ma con il procedere del tempo, qualche colpo di scopa, oppure il liquido della puli pavimenti comincerà ad intaccarlo, finché verrà rottamato con il suo stato di natura salvifica e l’ambulatorio riprenderà la sua naturale tristezza.
tanto è triste nuotare dentro una boccia di acqua stagna
avrà voluto l’artista prendersi gioco di noi e della nostra condizione? forse ricordarci una possibilità remota, una mancata scelta
La seguo con grande interesse e stima, grazie
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Forse, Laura, forse. Chissà qual’era quella scelta che ha messo il mondo su una strada escludendone altre. E’ accaduto infinite volte e quello che abbiamo è una mistura di caso e volontà, che ribolle di ricordo. In questo mi pare ci sia quell’età dell’oro, che è possibilità, ricordo e sogno.
Forse ci vedo troppe cose, ma mi piace pensare che il pittore, nella laguna abbia messo una voglia di pace, di calore, di protezione. Che nei colori di quel mondo plausibile, e senza l’uomo, ci sia la gratuità dell’universo e del bello. Che l’equilibrio tra specie escluda la distruzione dell’antagonista. Che lo stato di natura medichi l’evoluzione, il movimento.
Difenditi dai perditempo che usano le ipotetiche, Laura, 🙂
Sono passato a trovarti, e sei una bella sorpresa.
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maledetto il furore delle attese, le particelle ipotetiche, le coingiunzioni, le disilluse speranze
sapesse con quanta frustrazione e rassegnazione sono costretta a darle ragione
Sono contenta lei sia passato a trovarmi,
A presto
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un salvacuore, per favore.
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nessuno di noi vuole salvare il cuore, Meteora, forse a volte gettarlo, ma di quel grondare non siamo mai sazi. Un cuore quieto non ci appartiene.
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