Il lavoro è una cosa seria da queste parti, ci si suicida per il lavoro, per la responsabilità del lavoro degli altri. Sono più di venti gli imprenditori che si sono tolti la vita negli ultimi tre anni. La camera di commercio un anno fa aveva istituito un punto di aiuto, di ascolto, ma a che serviva se non era in grado di dare prestiti? L’hanno chiuso. Si somma tutto : debiti per forniture, crediti che non vengono pagati, banche che chiedono il rientro, la pubblica amministrazione che non paga, mercato difficile e alcuni non ce la fanno. Il lavoro, come è stato insegnato nelle case è la realizzazione dell’uomo, la misura del suo successo come persona. Successo verso di sé, prima che verso gli altri. Un poca di ironia non guasterebbe, ma è più semplice sentire bestemmiare a raffica piuttosto che una relativizzazione del lavoro. Tutto il benessere in questa terra d’emigrazione, l’ha creato il lavoro senza limiti, l’auto imprenditoria seria. Prima erano contadini abituati alle difficoltà dei raccolti, impermeabili alla politica, custodi di una libertà individuale che rasentava l’anarchia e che ha devastato il territorio di costruzioni e fabbrichette. Fedeli a nessuno se non al lavoro, quel lavoro a testa bassa, che ha tolto le altre dimensioni della vita. Quello che si può comprare serve, è buono e il resto è fantasia. La ricchezza viene esibita e nascosta, come la povertà, a seconda di chi si ha davanti. Quando si parla del sud, per dargli una dimensione benevola, usano un esempio semplice: qui si dice andiamo a lavorare, lì si dice andiamo a faticà. E si ride. Come se il lavoro qui fosse una festa, una dimensione epifanica del vivere. E non ci si rende conto che senza l’ ironia della testa e delle parole, non si vede la realtà e che il lavoro è fatica davvero, oltre quella fisica, che consuma e che ogni tanto dovrebbe finire.
Dovrei scrivere le memorie di un costruttore di zone industriali, dei sogni che accompagnano i progetti, quelli di chi progetta e quelli di chi si insedia, dovrei parlare dei sogni che si mettono sulla carta cercando di trovare una sostenibilità per l’uomo e per l’ambiente. Dovrei dire che non basta mettere il verde dove si passa più di metà della vita, e neppure i pannelli fotovoltaici sui tetti, che esiste una sociologia delle aree produttive che cambia gli uomini anche a casa, che bisogna produrre meglio per vivere di più, e che si può fare. Ma mi sembrano solo sogni da un po’ di tempo, chi è dentro la fabbrica era cinese prima dei cinesi e ciò che è fuori della fabbrica, ha regole spietate. Il lavoro è stato il legante di queste individualità, ha dato una dimensione collettiva, ma adesso che la crescita è finita, è difficile cambiare, ognuno ritorna ad essere solo e le braccia, la fatica non bastano più. Ecco una chiave che permette di leggere un territorio disorientato, ma se questa fosse la diagnosi, la terapia sarebbe terribile e nessuno l’applicherebbe: ripensare il lavoro, qui è impensabile.
A ognuno i SUOI sforzi,caro Willy e, spesso gli sforzi più autentici quanto “inutili” sono tutti nel segreto di un cuore che mai nessuno riconoscerà.
Buone feste e possibilmente senza fatica.Mirka
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Si può e si deve trovare un modo sostenibile di sviluppo, altrimenti non si va da nessuna parte. Addirittura occorrerà fare un passo indietro.
La crescita all’infinito non è possibile e senza una sostenibilità tra l’uomo e l’ambiente sarà autodistruzione.
Il costruttore di zone industriali non deve, nonostante tutto, rinunciare ai suoi sogni. Anche se gli sembrerà di lottare contro i mulini a vento.
Il lavoro è stato un legante, ha prodotto crescita, ricchezza ma anche zone completamente trasformate da quello che erano in origine.
E adesso che ci si ritrova?
Lande desolate di fabbriche, stabilimenti chiusi e abbandonati che mettono addosso una grande tristezza.
E’ impossibile però non pensare a tutte le storie e le vite che sono passate di lì e che grazie a quelle fabbriche sono riuscite a sollevarsi dalla miseria e ad avere, se donne, un’opportunità di emancipazione.
Ma la mia domanda è questa: in pratica come si può fare a venirne fuori?
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Bel post willy. Un’attenta analisi la tua, come sempre del resto.
Ho sentito dell’ultimo caso a Padova: l’ultimo suicidio in ordine di tempo solo pochi giorni fa. Il dramma di chi, pur lavorando, non riesce a riscuotere i crediti che vanta e sente grave il peso di dover pagare i dipendenti con soldi che non ha. Terribile questa situazione che sembra non avere soluzioni se non nel lungo ( ma quanto a lungo?) termine. Ci saranno altri morti; è da prevedere in una terra dove il lavoro è per molti quasi unica ragione di vita
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