storie: uno

Io che scrivo di notte, non sempre ho le idee chiare, e quanto ho scritto è lungo e neppure finito, quindi arriverà a puntate, e chi avrà pazienza, memoria e intuito rimetterà assieme il tutto. Forse.

La comincia così: avevo quasi 10 anni, li avrei compiuti dopo poco. I miei (le donne dovrei dire), mi lasciavano andare da solo ai giardini grandi. Quelli dell’arena, dove c’è Giotto. Io c’ho giocato in quella chiesa, voglio dire dentro, tra gli affreschi, e anche tra le rovine degli Eremitani dove era andato a pezzi il Mantegna, c’ho giocato per anni, ma questa è un’altra storia. Lungo la mia strada per arrivare ai giardini, c’era un palazzo nuovo che aveva sostituito una fila di case basse. Erano case belle, lungo il canale, come la mia, ma vecchie ed ormai fuori dell’idea di città che nasceva. Questo nuovo, era un palazzo alto, con un portico grande, pretenzioso. Il pavimento del portico era a tessere di mosaico multicolori. Nessuno aveva un pavimento così all’esterno e non era possibile giocarci evitando le commessure e neppure scriverci col gesso, ma si poteva correre e poi scivolare sulle suole e pensare all’estate che già invadeva la fine del maggio. Tutto era così nuovo, la libertà di andare, il primo caldo, la città che mutava, che si poteva lanciare il pensiero assieme alle gambe. Anche a quel fratello che era più grande e si prendeva tutte le palle che ti venivano regalate, oppure agli amici che avresti trovato ai giardini, alle corse, al sole nuovo nuovo, al compleanno. alla scuola che finiva. Si poteva pensare che i giochi del pomeriggio erano ancora intonsi, nuovi da scartare, come il panino in tasca. E si poteva cantare. E stavo cantando, cambiando le parole, mentre scivolavo sul pavimento a tessere multicolori fino a fermarmi di colpo. Un pensiero nuovo si era fatto strada e non assomigliava a nulla di pensato prima: ero felice per tutto quello che sarebbe successo, ma era finita la mia fanciullezza. Non ero più un bambino e la vita non sarebbe più stata solo giochi, piccoli doveri, amore dei miei, coccole e ceffoni. Sarebbe stata altro che allora non capivo, sentivo però che era finita e il dopo avrebbe avuto più peso, più responsabilità. Questa consapevolezza non mi avrebbe più abbandonato e il gioco fantasia/responsabilità avrebbe visto una natura prevalere sull’altra. Successivamente a questo ci sarebbero stati almeno altri quattro momenti altrettanto importanti e ogni volta la stessa consapevolezza che qualcosa finiva mentre altro iniziava. La differenza rispetto a quel primo momento fu che i successivi non sarebbe avvenuti perché era ora, ma perché altro li avrebbe determinati. Ma questo lo capii poi.

In quel pomeriggio di sole, sotto quel portico che percorro ancora, ci fu un bivio ed io presi una strada, che con tutte le sue svolte non è mai tornata indietro e non ha mai avuto altro bisogno se non il riconoscerla come propria. Ma quel roberto, allegro e ricco di immaginazione, che pure c’era ed era ben lieto di uscire allo scoperto non era chi pensava di essere in quel momento. C’era, era una parte, ma non era tutto e così ho accettato di divenire un cantiere, una costruzione con due nature. In fondo tutti assomigliamo a palazzi importanti, così è per noi almeno, con una facciata che dice chi siamo a quasi tutti gli altri ed un cortile in cui far riposare carrozze e cavalli e che ci parla di noi a noi stessi. L’importante è che la distanza tra queste due nature non sia troppo grande, che l’una non racconti cose che l’altra non tollera. E qui mi fermo, la storia continuerà, divagando e senza pretese di obbiettività.

3 pensieri su “storie: uno

  1. lampi sul passato: i momenti cardine , accaduti talvolta all’improvviso per svolte incomprensibili, lavorano poi sempre dentro di noi e ripensarci genera a sua volta altri lampi

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