Mia madre mi metteva in mano due forchette e faceva incastrare i rebbi. Non sapevo si chiamassero così, già il fatto che dall’incastro nascesse una nuova forma, era una scoperta. Le mie erano mani piccole, allora. Lei aveva una pazienza chiara, veloce, mi mostrava come fare e guidava le mani in quel movimento ellittico continuo. Poi cominciava a rompere le uova, separando tuorlo e albume ( per me il tuorlo, era il rosso, quello che, diventato giallo di zucchero, avrei avuto il permesso di leccare dalla terrina, poi si sarebbe mescolato con il bianco, l’albume, altro nome strano, per finire il tutto, sempre mescolando, nella fecola). A me toccavano gli albumi, sostanze gelatinose, appiccicaticce, che non ispiravano al tatto, e che al gusto sapevano leggermente di sale. Una schifezza, mi pareva, eppure la mamma, riempiva senza posa il piatto fondo in cui adesso riposavano le forchette. Poi mi prendeva le mani e mi insegnava, come si sbatteva. Sembrava facile, ma quel movimento, dopo poco, faceva dolere i muscoli del braccio, e continuava, continuava, e non ci si fermava mai e la gelatina diventava spumosa, poi sempre più solida. Salendo la fatica, con i muscoletti contratti, chiedevo: basta così? Lei prendeva le forchette, le immergeva e mi diceva: vedi, cadono, Devono stare in piedi. Dev’essere solida. E riprendevo a sbattere, non mi sarei mai arreso, era una cosa mia, la difendevo.
Quella schiuma sembrava davvero solida, di un biancore assoluto, sarebbe entrata nei tuorli tirati a spuma con lo zucchero, l’avrebbe diluito prima di unirsi alla fecola. Il segreto della torta margherita era questo, non c’era lievito, solo colore e leggerezza. Doveva lievitare da sé, raccogliere la forza e mutarla in una nuvola gialla che saliva e restava leggera. Essere altro, per riempire la bocca e saturare di gusto.
Da allora penso che la leggerezza sia questo montare dentro, questo cangiare colore e sostanza, conservando sé. Fatica, altro uso delle cose, costanza, obbiettivo, trasformazione. Sembra un mantra del mutamento, un far lievitare senza lievito la parte di noi che vola e cammina.
la torta margherita è la tua madeleine :)…..in fondo pure proust iniziò da quello 🙂 con il bianco dell’uovo sbattuttissimo si fanno quelle cose meravigliose di nome meringhe…lievi come le parole tra noi leggere 🙂
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Ciao Willy, la torta margherita è un piccolo miracolo che mette allegria.
Leggera, ma di sostanza!
Pass
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avrei anche il baccalà mantecato nel mio immaginario, ma non è un capolavoro di leggerezza 🙂
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é proprio così Pass, leggera, allegra, colorata e per marciatori con kilometri fatti e da fare 😉
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E’ ottima la margherita, leggera e non stanca mai.
No, Will, è adatta pure per chi marciatore non è 😉
alla faccia delle calorie! 🙂
Me ne hai fatto venir voglia: domani sera la preparo!
Tenerissimi i tuoi ricordi!
A casa di mia nonna materna si preparavano gli gnocchi di pane e patate con le erbette!
Era una festa!
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Buongiorno Willy, mi piace l’accostamento della leggerezza con la delicata delizia dei tuoi ricordi.
Riempie l’anima di sapori.
Un abbraccio
Ombre
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Delizioso il pensiero finale 🙂
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leggerezza era vedere mio nonno salire sugli ulivi per curarli ed “innestarli”, come diceva lui.
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Tu sai cos’è la leggerezza, tu ti sei profondamente conservato. E voli, e cammini, e regali parole da sfogliare lentamente come una margherita. Grazie, Es.
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MAI LETTA UNA DESCRIZIONE DI “TORTA” COSI’ SAPIENZALE.
Si vede che la scuola è stata ottima anche se durissima.Scapeau! Bianca 2007
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