il limite del costruire

gli edifici sovradimensionati rispetto all’uomo, contengono la loro distruzione e rovina

La megalopoli, il luogo della contaminazione istantanea, l’eros che si consuma nel contatto, la vita segmentata che non prosegue. L’illusione del poter fare per poter essere e lo thanatos, che emerge nascondendo la sua natura di soluzione definitiva: falsa pace che aspira la luce sino a far implodere i singoli prima ed il gruppo, la societas, poi.

Edifici e vite a perdere, nella città/campagna, senza distinzione perché fuga/ appartenenza in luoghi senza segni comuni. Agiti da calligrafi privi di traduzione, gli uomini vengono affidati al senso, ed ancor più alla sensazione. La necessità del trasmettere, del fruire/tramandare è annullata nella città babele. Come cercare il dna dei Maya negli Indios e non riuscire a leggere la grandezza dei popoli, delle vite, dei singoli ingegni, ma coglierne la traccia in un fondo d’occhi disperato di ricordo. Come la ricerca di qualcosa che è stato, e non riesce ad affiorare e genera solitudine nella consapevolezza d’essere appartenuti a qualcosa di più grande e comune. Vedere di tutto questo solo le coincidenze chimiche, quelle che danno forma agli occhi, scavano le guance, tengono minute le ossa. E non dare conto del malessere senza nome che racchiude il luogo, la città ch’era prima degli uomini ed ora è dell’occasione, del momento. Resta la forma che non basta più nel suo riempire l’aria, e nel restare muta d’oggi, mentre parla di un ricordo e di un altrove che non è verificabile. E quindi non è.

La megalopoli immagine dell’uomo e suo luogo. La città corpo. La casa corpo, funzione e sostanza d’essere, d’esistere. Non quindi i servizi che non si fruiscono, non l’occasione continua che non si può cogliere, ma il vivere del luogo e nel luogo.

Vivere, parola densa, sottovalutata, confusa con il consumare, il possedere, con l’ossimoro della durata dell’effimero. Parola sovrapposta alla religione del momento, della sensazione crescente, ovvero tutto quello che allontana dal peso dell’essere.

Essere, altra parola pastosa, che nasce dalla percezione del sé e travalica il contenitore, si spande e si contamina ( l’essere si contamina davvero) nel confine dove è ed al tempo stesso percepisce l’altro, si mischia, lo lascia entrare.

Difficile il cuore

e la parola a te dovuta.

Anche l’amore

a te dovuto,

arduo.

Difficile la condizione dell’uomo stretto tra ruolo, comunicazione, piacere, identità. E’ meglio vivere la propria contraddizione nella città immagine della semplicità, nella città corpo dov’ è centrale il sentire che ricorda ed apprende? Dove il segno architettonico è orizzontale. Quello più difficile, perché non totemico. Dove emerge il fermento del camminare, della conversazione, della comunicazione, del dubbio. Anche da soli. Dove il sé e la communitas sono presenti assieme ed è chiaro il nostro occupare lo spazio, non la scia di qualcosa che deve muoversi per non far domande. Oppure il luogo verticale, l’occasione continua, la megalopoli che offre sempre più software e non il tempo per fruirlo. In Cina progettano e realizzano città da 240 milioni di persone, dove esisterà tutto e tutto potrà essere fruito, purché si possa pagare. Dove tutto si toccherà per un attimo, dove il ricordo collettivo non esisterà, ma esisterà solo l’appartenenza. Le grandi città mondiali sono nella stessa scia, luoghi in cui tutto è possibile e perdonabile, dove l’uomo è parte pensando d’essere protagonista ed il tempo accelera. In queste città si è al centro del futuro, nel vortice che genera ciò che saremo. Ma in che termini saremo? Consumo? Possesso? Sovrapposizione continua? Sensazione?

Scegliere dove essere è dirimente, significa sapere cosa si vuol essere.

4 pensieri su “il limite del costruire

  1. Siamo noi stessi in ogni luogo.
    La scelta di quale debba essere quello che più ci rispecchia è falsata dalle necessità contingenti, e quindi non siamo del tutto liberi di deciderlo.
    Anche nelle città verticali ci ricaviamo un posto dell’anima, sia esso un locale o un angolo di parco.
    La comunicazione e l’identità sono sopraffatte dai numeri e dalla diversità delle megalopoli, ma in qualche modo si riesce a recuperarle, perchè sono una necessità imprescindibile, per stare bene.
    Per il piacere: non dipende, ancora una volta, da dove sei…che sia una serata a teatro o una passeggiata tra i campi, o il tocco di una mano calda, ce lo procacciamo e le ricerchiamo con pervicacia, pena la morte interiore.
    Siamo uomini e donne, non è possibile snaturarsi…anche in una città da 240 milioni di persone.
    Per le tue parole in corsivo: c’è qualcosa, nella comunicazione e nell’amore, che non sia arduo, ma che valga comunque la pena?
    Felice l’uomo che non si sottrae alla paura dei sentimenti.

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  2. D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. (I. Calvino, da “Le città invisibili”) 😉

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  3. Parto dalla tua conclusione Ghibli. Credo che l’amore sia sempre arduo, spesso difficile. Il sesso e’ facile, ma l’amore e’ difficile anche quando sembra facile perché comunque si mettono assieme due identità. Val la pena di tentare quando si e’ disposti a dare molto più di quanto sembra, quando si sente che e’ possibile, altrimenti meglio essere onesti e dire cosa si può dare.
    Per il vivere chi può scegliere e’ fortunato, a me piacciono le città medie, prevalentemente orizzontali, in queste trovo quasi tutto quello di cui ho bisogno. La mia città è piena di storia, stanotte camminando sotto i portici, ne sentivo la compagnia rassicurante, e pensavo che con un treno sono a un’ora o al massimo tre, da un evento eccezionale, se m’interessa, quindi mi va bene così.
    Credo che le nicchie si creino ovunque, che il nostro modo di vivere sia un’aura che ci segue, ma che il rumore di fondo influisca, affatichi. Ho amici, mio figlio,che vivono benissimo in grandi città, credo sia una loro flessibilità che non ho, che non voglio. Quando ragiono sulle città distinguo tra ciò che m’ incuriosisce e ciò che e’ il posto in cui tornare. In questo penso come Chatwin, c’è il posto di cui avere nostalgia e che ti segue, ecco questo e’ il mio posto. Condivido le tue considerazioni, ma io sono fortunato, sto dove voglio stare.

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