Come a bridge facciamo la dichiarazione: mi sento italiano e su questo sentire gioco la mia partita.
E per essere italiano non ho mai rinunciato ad essere profondamente veneto, all’amore per la mia lingua madre, ma non sacrificherei a questo amore per dove sono nato, la mia appartenenza all’Italia. Nell’amore si appartiene, si porta la propria libertà e si chiede attenzione e rispetto per questa libertà. Si prende e si dà senza fare il conto. Se non amassi l’Italia non mi arrabbierei tanto per il vilipendio dello Stato che si perpetra quotidianamente, non soffrirei perché a questi cittadini viene negato ciò che a me è stato dato, ciò che era possibile ed ora sembra consegnato all’arbitrio. Non mi incazzerei se i diritti fossero eguali, se non sentissi la profonda ingiustizia che non aiuta chi è in difficoltà, se non fossi coinvolto dalla sofferenza di una parte grande del paese consegnato alla criminalità.
Questo è il mio Paese, lo è a dispetto di chi vuole dividerlo, a dispetto degli egoismi, delle acrobazie di chi fa finta di non vedere che non si può essere ministri di uno stato che si vuole fare a pezzi.
Questo è il mio Paese, è il mio luogo e nessuno me lo può sottrarre, potranno rendermi la vita difficile, scacciarmi, ma resterà il mio paese e ciò che gli devo, non lo devo ad un feticcio, ad una bandiera, ad un inno, ma a me stesso, al mio appartenere a qualcosa che è più grande di me, più alto per possibilità e futuro.
Non mi interessa discutere molto dell’unità, neppure se sia la lingua o la televisione che ha unito il Paese, so che questa unione è stata un riconoscersi che si è fatto strada tra ingiustizie, sopraffazioni, delitti. Lo so e penso che tutte quelle ingiustizie commesse sarebbero senza senso, se non ci fosse un risultato positivo. Nessuna ingiustizia attuale sanerebbe le ingiustizie di allora.
Mi commuovo quando cammino in altopiano, nell’isontino o sulle dolomiti. Le trincee, le pietre, i residui di quella guerra mi parlano di uomini che a malapena si capivano, che senza eroismi particolari, mai volentieri, andavano all’assalto nella più inconsulta delle guerre. Erano già italiani, erano persone del sud accanto ai miei nonni veneti. Uniti, dalla vita prima che dalla morte. Penso al senso di quelle vite, all’ingiustizia di quelle morti e li sento vicini. Uomini e italiani come me.
Cosa motiva una persona nella tragedia e nella gioia: l’essere uno e molti assieme, uniti. Non occorre un terremoto, basta una vittoria sportiva, uno scienziato per far emergere questo sentirsi parte. Voglio estrarlo coscientemente questo essere parte di qualcosa di più alto, continuare a sentirlo ogni giorno per indignarmi contro chi massacra la percezione dello stato, voglio continuare a sentirmi diverso e non massa, ma italiano, essere della nazione e volere lo stato. Essere Italiano per me è questo, oltre la retorica del momento, oltre i simboli, oltre le mie limitatezze, oltre la presunzione e il dubbio di essere nel giusto. Per questo non capisco le ipocrisie politiche, non comprendo il relativizzare i comportamenti, le furberie tra furbi. In quale paese un partito secessionista sarebbe al governo, potrebbe dispregiare i simboli comuni, dichiarare la non appartenenza allo stato e governarlo?
Mi sento e sono italiano perché qui voglio esercitare la mia libertà e metterla in comune con le altre, perché i valori che hanno tenuto assieme questo paese prima della sua nascita erano già così alti da essere riconosciuti come italiani prima che la nazione esistesse, voglio essere italiano perché è un mio diritto esserlo e nessuno me lo può togliere. Lo stesso diritto che ha, chi vuole appartenere a questo Paese, e sente di essere per sé e per gli altri, unito in un progetto comune, in una solidarietà di intenti. Questo è quello che penso ora che giovane non sono più e che pensavo anche quando il nazionalismo non mi piaceva, come non mi piace ora, quando lo stato sembrava opprimere, eppure toglieva meno libertà di adesso, quando la bandiera sembrava un limite più che un orgoglio, ma all’estero mi piaceva vederla e dirmi italiano. Allora i nazionalisti erano i fasci, noi eravamo internazionalisti, ma non smettevamo di essere italiani. Nessuno se lo dimenticava e la passione di allora era per i diritti e l’eguaglianza in questo Paese e nel mondo, come diritti dell’uomo.
Passione, diritti, doveri: per amore si appartiene e non per altro.
Grazie Roberto per le tue intense e bellissime parole che condivido una ad una!
Anch’io non riesco a non pensare a tutti quelli che ci hanno creduto e hanno dato la vita per il nostro Stato! Ce ne fossero tante anche ora di persone così…
Che sia una buona Festa!
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sarà una buona festa, non siamo in pochi e non riesco a pensare a questo momento come a una nottata, se posso usare un’immagine, dobbiamo trascinare l’alba verso il giorno. sarà così.
Grazie Rita e buona festa a Te e a tutti noi.
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Sì, giusto… l’alba verso il giorno!
Una “piccola” rettifica: Nazione in luogo della parola Stato.
Ciao
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E’ scrivendo e pensando così che si diventa italiani. La festa è stata un buon momento e il Presidente della Repubblica (parole che dovremmo ripensare una ad una) è stato un esempio di forza e intelletto. Sono orgoglioso di lui e sono orgoglioso nel leggere Un blogger come te.
Ti commento dal mio “salotto privato”. E.R.
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