eravamo

 

Eravamo un gruppo di amici, tra i 18 e 20 anni. Tutti pensavamo le stesse cose e tutti pensavamo cose diverse. Eravamo noi, al centro del mondo. Quel mondo così leggibile e promettente, un regno della possibilità che si nutriva di tinte forti. Alimentavamo questa visione con le camminate per la città, le partite interminabili a carte, le discussioni furiose, le letture da cui si usciva con le guance rosse di eccitazione e la voglia incoercibile di dire subito quanto si era capito. Le corse d’inverno, il basket giocato il pomeriggio, le dormite di giorno e le veglie di notte. E d’estate le nuotate, la spiaggia, il fiume,  i calzoni corti, la bicicletta, le mangiate e il tirare tardi. Immensamente tardi, parlando con convinzione di ciò che non conoscevamo e che sembravano a portata di testa, di ragionamento. E cosa ci voleva, bastava la testa, pensare, capire, discutere. Si poteva rifare ciò che era stato fatto e fare ciò che non c’era. Le parole erano una cortina che si scostava man mano, finché le pronunciavamo, la convinzione si faceva strada, come fosse una battaglia in cui l’altro sarebbe stato con-vinto. Il mondo da maneggiare, in mano, da accarezzare e stringere per lanciarlo lontano.  Un mondo tattile, scabroso, ostile, domabile e riottoso. Come piaceva a noi. E gli scoppi di risa, l’ironia, le prese in giro, i racconti, gli amori pudicamente accennati, quelli vantati e inverosimili. Le attese, le infinite attese, senza tempo. In ritardo, in anticipo sul ritardo successivo, gli appuntamenti mancati, i piedi battuti, la rabbia, il non sopportare alcuna costrizione. Le sfide, le cose fatte per misurare la paura, la paura che ti prendeva allo stomaco perché non sapevamo. Già non sapevamo eppure tutto si poteva sapere, fare, conoscere.

Quelli che non ce l’avevano fatta, la tristezza, il silenzio, il chiudersi nei pensieri. Poi di nuovo la vita che prorompeva. E il giusto, l’ingiusto si collocavano con nettezza: io sto di qua, e tu? Passami la sigaretta. Ci facciamo un panino, passo a casa e scendo. Domani aveva un senso. Una tenda squarciata, un risveglio, un caffelatte, un urlo. Dio, sì, un urlo al cielo, a noi, di corsa, senza fermarsi, mai. Finché ansanti a terra, sull’erba calda, sulla sabbia, con la voce spezzata, sputando parole e risate, tutto assieme. Me la passi una sigaretta, voglio tossire, voltarmi, guardare il cielo. Voglio essere.

E ti diranno parole
rosse come il sangue, nere come la notte;
ma non è vero, ragazzo,
che la ragione sta sempre col più forte; io conosco poeti
che spostano i fiumi con il pensiero,
e naviganti infiniti
che sanno parlare con il cielo.
Chiudi gli occhi, ragazzo,
e credi solo a quel che vedi dentro;
stringi i pugni, ragazzo,
non lasciargliela vinta neanche un momento;
copri l’amore, ragazzo,
ma non nasconderlo sotto il mantello;
a volte passa qualcuno,
a volte c’è qualcuno che deve vederlo.

Sogna, ragazzo sogna
quando sale il vento
nelle vie del cuore,
quando un uomo vive
per le sue parole
o non vive più;
sogna, ragazzo sogna,
non cambiare un verso
della tua canzone,
non fermarti tu…

Lasciali dire che al mondo
quelli come te perderanno sempre;
perchè hai già vinto, lo giuro,
e non ti possono fare più niente;
passa ogni tanto la mano
su un viso di donna, passaci le dita;
nessun regno è più grande
di questa piccola cosa che è la vita

E la vita è così forte
che attraversa i muri senza farsi vedere
la vita è così vera
che sembra impossibile doverla lasciare;
la vita è così grande
che quando sarai sul punto di morire,
pianterai un ulivo,
convinto ancora di vederlo fiorire

Sogna, ragazzo sogna,
quando lei si volta,
quando lei non torna,
quando il solo passo
che fermava il cuore
non lo senti più ;
sogna, ragazzo, sogna,
passeranno i giorni,
passerrà l’amore,
passeran le notti,
finirà il dolore,
sarai sempre tu …

Sogna, ragazzo sogna,
piccolo ragazzo
nella mia memoria,
tante volte tanti
dentro questa storia:
non vi conto più;
sogna, ragazzo, sogna,
ti ho lasciato un foglio
sulla scrivania,
manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu.

6 pensieri su “eravamo

  1. Siamo stati ragazzi con delle speranze e degli ideali. Rgazzi felici di essere al mondo, forse. E il forse, lo sai, vale per me.
    Ma non è colpa mia se non sono grata alla vita. Non è colpa mia.

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  2. Li hai descritti proprio bene quegli anni. I miei, i tuoi, i nostri. Sì i nostri. Voglio dirti una cosa dal profondo dei miei 18 anni Wilyco: io li ho ancora. sto male per questo.

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