c’era già estate in febbraio

Ormai le giornate s’allungavano, il tempo della luce era in equilibrio con l’ombra.

Tu conti per me, ma io conto per te?

Era questo crescere equilibrato che spegneva le domande, che trovava conferma nel tempo, nella luce, nell’aria già tiepida tra due poli di freschezza. I picchetti del limite del giorno, tra luce e ombra, zona di transito tra una condizione e l’altra, tra sonno e veglia, desiderio d’altrove e lavoro. Sarebbe accaduto qualcosa che confermava il contare e l’equilibrio e la vita già rimessa in moto avrebbe riempito i vuoti, messo alla giusta distanza ciò che non era importante. Non più così tanto, almeno.

La bella estate già mandava capsule del suo odore, e stringendo tra pollice e indice i polloni verdi si sentiva un umore che appiccicava sensualmente le dita. Intuizioni di ciò che sarebbe arrivato. Arrivato, non giunto, come una folla che scende da una nave e frastornata saluta, arriva, ma è piena di energia nuova, di scoperte che certo arriveranno, conscia che questa che tocca può essere una patria non un luogo. Ed ancora saggia la terra e già sceglie senza pensare, travolta dalla meraviglia, mentre si riempie di quell’aria che dentro di sé porta il nuovo che accade.

Appena fuori la città c’era una prateria che presto diventava steppa. L’erba era già nuova. La capanna degli attrezzi sembrava una yurta, certo animata di donne e di bambini, che magari c’erano davvero, ma dormivano adesso, ed un cane, sembrava, anzi era un cavallo, finalmente libero da padroni. E correva nel blù che si scioglieva nel verde e non guardava indietro, e sapeva dove andare, anche se procedeva per larghi giri, felice di esistere. Allora la voglia di andare via spariva in quel cane che sembrava un cavallo e che correva, e sentendo l’aria e il fumo di legna veniva una voglia forte di stendersi bocconi su quell’erba, di sentire la terra che è donna e di lasciare che in silenzio ti baciasse. Ed era ancora febbraio, ma già estate per il cuore.

Fuori dei portici la pioggia lavava asfalto, pietre, rotaie di tram, sporco di colombi e d’uomini e lenta una carta d’inverno, scivolava sul rivolo d’acqua verso un chiusino.

C’era già estate in febbraio, bastava sentirla e farla entrare sotto il cappotto aperto. Dolce come un abbraccio d’amore per la vita.


5 pensieri su “c’era già estate in febbraio

  1. ah le domande fatidiche…sarebbe meglio non farle, per non avere risposte. e non rispondere, per non mettersi nei guai.
    bisognerebbe tenersele ferme nel cuore, là dove vivono i sogni, appenderle ad asciugare al sole, come la biancheria in estate.
    bisognerebbe.
    ma quelle escono di getto, come il vomito dei neonati : e lì restano, un po’ acide, un po’ schifate.
    buongiornobuongiorno..solesole 🙂

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  2. @Minnie: senza domande l’uomo starebbe a spidocchiarsi su un albero dalle parti dell’alto Nilo. Quello che ci frega è l’arroganza di voler avere risposte per sempre, che alla fine servono solo a rassicurarci.
    @Faty: felice di trasmettere qualcosa Faty, e che tu condivida. Annusa e la senti che preme l’estate.

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  3. quindi esiste la teoria dell’evoluzione del pensiero su mi pensi ma quanto mi pensi?….chissà, willy, se anche lucy sfogliava la margherita …magari si, magari siamo andati sulla luna ma la margherita la si sfoglia da allora…

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  4. mettiamola in altro modo Minnie, se esiste l’equilibrio tra persone, non importa la misura, il quanto mi pensi, allora il mondo è in equilibrio con noi. Sono le asimmetrie che fanno male 🙂

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