gli anni di plastica

La plastica esiste sul serio da 50 anni, prima c’era la bachelite, la celluloide, quelle che oggi sono plastiche da gourmet, di cui i vecchi conservano memoria e qualche vecchia azienda adopera per penne stilografiche di pregio. Quello che è nato a partire dagli anni 50 è stato, invece, usato per fare qualsiasi cosa e deriva essenzialmente dal petrolio. Pensate alla singolarità di questo miscuglio di catene di carbonio, ossigeno ed idrogeno che, nato da vegetali ed animali variamente combinati dalla pressione e dalla temperatura, viene estratto liquido, in parte bruciato ed in parte ricombinato a formare prodotti assolutamente nuovi e mai visti in natura, ma talmente stabili che la plastica prodotta, è quasi tutta ancora in ambiente. Residuo del benessere e dell’opulenza, è in gran parte negli oceani e forma enormi distese di detriti che le correnti concentrano a profondità diverse. E siccome la natura non sta ferma  a guardare, dai microorganismi sino ai grandi mammiferi, tutti si stanno dando da fare per capire se questi oggetti multicolori sono commestibili, immettendola plastica nella catena alimentare. Un ciclo che torna all’ inventore, che piano piano se la divora, nel sushi, nel pesce, nella carne alimentata con farine di pesce, nell’acqua con microparticelle in sospensione, nel latte, nei formaggi, ecc. ecc. Le catene dei polimeri si rompono sotto l’azione della luce, formano polimeri più piccoli, anche se, per ora, non si arriva facilmente ai monomeri, e questo è un freno all’irrompere massiccio nei corpi degli animali e dell’uomo, ma non durerà. Si calcola che sinora siano state immesse in ambiente un miliardo di tonnellate di plastiche varie, polimeriche. Considerato che non si è decomposto quasi nulla, ne abbiamo già per i secoli futuri. In qualche laboratorio si allevano microorganismi disponibili e voraci, in grado di aggredire le lunghe catene chimiche, ma quale effetto avranno queste bestioline sulle catene alimentari e sull’ambiente in generale, non è dato conoscere. Troppe variabili, troppa ignoranza, troppo distacco tra apprendisti stregoni e l’interconnessione che regola il pianeta. Si assume un atteggiamento fatalista, ci si ripete che in fondo è proprio la stabilità della plastica a salvarci, certo non è lo stesso con i pigmenti così mutageni e cancerogeni, e neppure per le molecole ad alta tossicità, ma per ora quelle fanno parte di una vita statisticamente più lunga e quindi tanto male non faranno. Con questi pensieri si lascia passare un effetto di mitridatizzazione che dovrebbe abituare gli organismi, ma non sappiamo se tutto questo diffondersi di ignoto genererà qualche mostro. La paura si arresta davanti alle oltre 6000 nuove molecole chimiche prodotte ogni anno e destinate a finire in ambiente. Cosa faranno? Non c’è risposta. Sarà un male sbilanciato, oppure le nostre cellule troveranno un bene che le equilibri. Chissà; è un ignoto talmente grande che ” il cor …si spaura “, ma non cessa di battere, semplicemente si distrae e quando non si sa, si rimuove e si spera. 

Analizzare i rifiuti  racconta tante cose. L’imprevidenza, la prodigalità, il tenore di vita, le abitudini, i vizi, le buone pratiche. In un’epoca apparentemente senza classi, i rifiuti definiscono i confini sociali. Hanno cominciato gli americani in sociologia, a scavare nei cassonetti per anni, prima per definire la middle class, e poi per fornire i dati alle aziende, oltreché alla comunità scientifica. Le abitudini e la capacità di reddito hanno un notevole valore nel programmare i consumi di massa ed i livelli di accesso al censo. Ma la plastica è trasversale, non definisce un confine di classe o di censo. Le borse di Vuitton dei cassonetti sono quelle napoletane o cinesi e non si era prevista la Cina, il vero re della plastica e dei nuovi consumi di massa. La plastica conformerà gli uomini, il mondo lo sta già conformando. E sarà un mondo fatto di plastica cinese, di bassa qualità, imprevedibile nella sua decomposizione e nella sua azione sugli organismi viventi. Ma in fondo a noi non è mai importato troppo degli organismi viventi e tantomeno dell’ambiente. E in fondo a Gea non è mai importato molto dell’uomo. I prossimi 50 anni saranno interessanti da questo punto di vista, ma in questa progressiva riconduzione degli individui dal sociale al personale ognuno se la vedrà da solo. Al massimo si medicalizzerà anche la plastica, non i comportamenti o la produzione. Solo la fine del petrolio permetterà un argine, ma manca ancora molto a questa svolta e quello che si produce, intanto finirà negli oceani, ad attendere, sornione, il morso del primo pesce o che il plancton lo ingoi senza decomporlo. E’ una spirale che con un balzo d’ingegno si ricondurrà all’inizio e ad ogni giro ciò che troverà sarà mutato. Ma nessuno ci pensa troppo, non sono gli anni di plastica questi? Facciamoci un Campari, và… 

2 pensieri su “gli anni di plastica

  1. « E mò e mò e mò… Moplen! »
    purtroppo mi ricordo…

    ferrara è vissuta e morta, di plastica…
    bello lo sfondo nuovo, sembra… formica.
    🙂

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  2. la formica era parente della bachelite, cioè formaldeide e fenolo. Cose antiche Arya, se passassero gli adolescenti di qua mica capirebbero. Con il moplen Natta, vinse il Nobel e fece la fortuna dell’industria chimica italiana. Anche di quella tessile. Per un po’.
    Questo sfondo mi ricordava che in qualche mio esperimento di scrittura m’ero messo in testa di usare cartoncino colorato e il grigio mi piaceva assai. 🙂

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