il refe grigio azzurro

Non scegliere.

Magari si potesse; è il non credere che costringe ad affrontarsi.

Si guarda il refe grigio azzurro che fa trasalire, che annoda paure, che le estrae alla luce, dicendo: se vuoi nascondi, affar tuo, non mi sfuggirai.

Sfuggire a chi, se non a se stessi. Come si potesse rinunciare alla propria inclinazione senza un cilicio che piega le teste prima dei cuori.

Ed allora emergono le paure annidate e traslate. Dalla morte all’amore, sino al sesso. E poi di nuovo a rovescio. Tutto ruota sulla solitudine, sul terrore di non essere amati.

Nell’allegria timorosa dell’inizio d’ogni guerra c’è un limite che si sposta, come un cartello di confine divelto nella furia d’invadere, che poi è paura d’essere uccisi. Ma oltre il confine, il coraggio, subito muta nel ragionare attorno alle paure, al vestirle, perchè nude non si tollerano se non nel trasalire involontario. La morte, il sesso, l’amore. Tutto assoluto, tutto relativo. La paura vestita è relativa, consente decisioni ponderate, ma è l’immagine di quella assoluta che sta dentro e pesa. E’ la bestia che, a fatica, si è sollevata dalla palude e ripete il gesto arcaico dello scrollar da dosso. Eccolo un colpo di coda del sauro che ospitiamo nella broda in fondo al cuore. Un colpo di coda per vivere, per non lasciare che l’assoluto profani la vita.

Vestire e agghindare le paure, parlar d’altro, è compito delle religioni, della delega che l’uomo fa al gruppo per sfuggire alla solitudine siderale della compagnia di sé. Il lasciapassare per uscire nel bujo ed urlare alla notte: voglio l’immortalità, voglio essere sempre immerso nella bellezza, voglio un dio che mi consoli e perdoni, voglio uscire dalla solitudine dell’assenza d’amore, voglio ricongiungermi con mia madre quando l’amore non era fatica. Voglio. E se io delego a te, tu me lo devi dare.

Ed allora il vestito consolante si trova, si relativizza l’assoluto, sarà per altri la disperazione o la forza di volare sulle proprie ali di pterodattilo: non nobis domine.