è bene dirlo

Qui si parla poco di musica, eppure le mie giornate hanno umore e colonna sonora in sintonia. Si parla poco di libri, eppure sono un bibliofilo. Non si parla di film, ed il cinema è da sempre parte importante della mia vita. Del resto, non si parla spesso di donne, eppure ne sono affascinato e curioso. Quindi sembrerebbe che le passioni vere siano distanti da quello che dico, in realtà, le trovate disseminate ovunque mescolate a molto d’altro. Sono passioncelle, angoli riservati, in cui qualcosa di me cerca e sta bene, a volte.

Per una volta, vorrei ricostruire con voi una sequenza di pensieri. Una specie di flow chart della mia testa e stabilire un legame tra musica, film e libri,così, più o meno come si è verificato.

Avverto : la cosa è poco interessante, potete cambiare subito blog.

Ascolto, su radio tre, una giovane pianista tedesca, Alice Sara Ott,  che interpreta il concerto n.1 di  Čajkovskij. Brava, ma non un genio. Forse più una necessità discografica che una scommessa sul nuovo che innova. Anche lei risponde ad una attesa di assoluto che, da tempo, pervade questa epoca e che fa sprecare annunci d’eccezione. Ho incontrato, e conosciuto, due tra i migliori dieci pianisti giovani al mondo, bravi, ma nessuno è diventato Benedetti Michelangeli, o Richter o Pollini o Gould. Sfortunati? No, in fondo non mancano i virtuosi, ma è l’aura del mito che non è facile da conquistare ed è fatta di qualcosa che pochi hanno, ma che soprattutto lascia molti morti per strada. Qui subentra l’associazione con un film: Shine. Una storia che narra del Rach3 e della sua intersezione con la vita di un pianista in formazione. Il concerto n.3 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, non è il più difficile dei suoi pezzi, neppure il più bello, a mio avviso, ma ha un’atmosfera di mito che lo circonda ed è spettacolare vederlo suonare. Il protagonista del film, Hoffgott, è un convergere di problemi esistenziali, non molto diversi da quelli che molti noi hanno vissuto, magari con intensità diversa, ha talento, è promettente, ma ad un certo punto collassa, e non per la difficoltà della pagina pianistica, bensì per la vita. Il lieto fine, ci sta tutto, è una storia vera, è meglio che il protagonosta stia bene. Quello che non doveva accadere, era farlo suonare in pubblico. L’avremmo immaginato felice con la cartomante, lui le suonava Rachmaninov ogni sera e come per tutti i sogni, ci saremmo svegliati senza grandi problemi. Ma volevano creare il mito e così alla verifica, il genio si è dissolto. Non c’era. Il film è una serie di luoghi comuni delle vite. Un canovaccio, su cui ci si commuove perché, in qualche parte, è impossibile non identificarsi. Il padre autoritario e frustrato, il sogno di gloria, la rottura del vincolo con il padre-maestro, la colpa, il castigo, il baratro, l’angelo, la salvezza. L’assonanza del film con la giovane pianista è nel speriamo di non dimenticarla presto, però anche l’associazione con i libri, passo successivo, mi interessa. Ci arrivo pensando che troppo spesso nella testa, Freud, Jung, Adler, ecc. sono un flash nella notte. Mostrano alberi, case, persone, ma non nel dettaglio, dobbiamo aspettare la luce del giorno per farli, davvero, profondamente nostri. Spesso ci si accontenta di interpretazioni su cui è facile trovare un consenso, soprattutto se dette ad alta voce. Ad esempio il nostro Hoffgott, ha un padre ebreo, emigrato che projetta sul figlio la propria frustrazione di pianista mancato. Quante volte si interpreta la nostra vita cercando la spiegazione immediata, frutto di rimasticature, di divulgazioni, di comode scorciatoie di pensiero? Il film spinge in questa direzione, non mette il dubbio che il nostro fosse un apprendista pianista che poteva essere discreto, forse buono, ma lì sarebbe finita. Invece c’è bisogno del mito e di pensare che il genio si sia schiantato in casa. Eppure, anche i pianisti di piano bar spesso hanno fatto il conservatorio, anche loro hanno sognato, provato, cercato, finché si sono resi conto della misura, del limite. Se quei libri, che fanno da tappezzeria, fossero stati letti un po’ criticamente, io avrei capito (magari gli altri lo sanno, ma sto pensando tra me), che le pulsioni comuni entrano nelle nostre vite, ma che solo quando le capiamo davvero, ci cambiano. E che il genio è in chi ha riconosciuto, interpretato, pensato per la prima volta le cose che, ci sembra, ci riguardino così da vicino, ma che lo stesso genio innamorato dell’assoluto, già sapeva che qualcun altro l’avrebbe superato. Un poco ne è triste, il genio, ma per fortuna sennò saremmo fermi all’invenzione della ruota. Ma tutto questo capire profondo a che serve? Al mondo basta quello che si condivide, e il distacco tra chi vede, ascolta, legge l’opera d’arte e chi la fa, è proprio in questa comprensione, in cui a volte, solo a volte, c’è profondità e ci si riconosce. Si legge l’ovvio, che era sotto i nostri occhi, e l’ovvio è il finalmente compreso. Da questa intuizione feconda ne nasceranno altre, ma questo genio che rassetta le vite, le cambia un poco, viene limitato nella radicalità che sottende. Saremmo più vivi e, forse, felici, se andassimo più in profondità ed al tempo stesso, fossimo più leggeri, perché quando queste condizioni ci sono entrambe, ci cambiano? Boh, in realtà noi non vogliamo cambiare, perchè il nostro mondo sarebbe scardinato, privato d’ogni sicurezza e bisognoso di movimento continuo, di energia immane, di decisione. Meglio guardare, accontentarsi di piccole correzioni di rotta, emozionarsi in privato e a tempo. E’ questo equilibrio infranto che gestisce il genio: addita e poi lascia scegliere, ma non sarà più come prima. Adesso sappiamo.

E allora riconosciamo la disperazione dell’assoluto, non la felicità, e decidiamo che non è tempo di sentire oltre, che sembra faccia troppo male sapere davvero, cambiare. Invece è il cambiamento che viene scambiato, per il dolore che porta con sé. Certo, c’è la società, un utero ricco di sicurezze e di limiti, c’è il vivere reale che non è l’acuto del genio, ma l’accontentarsi, è vero che anche i geni bevono il caffelatte. Ma riconoscere per forza, l’annunciato genio della tastiera, fa perdere il giudizio, se non si sente tale. E così si perde la percezione del limite, che quando viene percepito, può essere spostato.

Adesso capite perché parlo poco di musica, cinema, libri e arte, perché se ripercorro i pensieri veri, questi sono una questione privata, come ogni sentire, trasversali e difficili da comunicare, se non per assonanza forte, condivisa.

E se invece devo esprimere un giudizio bello o brutto, non mi basta perché non direi quello che davvero penso.  

P.s. Horowitz, tra gli altri, il Rach 3 lo suonava bene, qui è con Mehta. Lo pensava anche Rachmaninov, ma questa è un’opinione.


 

7 pensieri su “è bene dirlo

  1. ECCOME SE SI ERA CAPITO
    che tu ami la musica,i libri,le donne,la polenta.
    Quel concerto l’ho sentito due mesi fa fa diretto da Metha e al piano la Argerich.Mica male.Ciao veloce che gli operai (beduini non t’offendere eh?..) me stanno (S)fracellando la casa…Bianca 2007

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  2. In poche parole, tu vivi L’emozione della vita.
    E credimi … non è semplice e neanche alla portata di tutti.

    Un cordiale saluto
    Mistral

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  3. credo che tutti viviamo l’emozione della vita, Mistral, spesso l’intensità dipende dall’anestetico scelto. E non mi pare che tu ti tiri indietro, nel vivere, anzi…
    Mi fa sorridere il cordiale saluto, lo prendo per il suo significato allegro che risuona, non che tiene distante.

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  4. Lungi da me tenere distanti gli Amici ( tu lo sei).
    Se ho dato questa impressione, ritiro immediatamente la parola cordiale e
    al suo posto scrivo un affettuoso saluto.

    Un Abbraccio
    Mistral

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  5. Ma non doveva essere “poco interessante”?
    Mi manca il tempo materiale per leggerti tutte le volte che vorrei, ma quando ci riesco è un vero e raro piacere.

    Forse te l’ho già detto e in tal caso mi ripeto.
    La tua è una dote. Scrivere e comunicare.
    Una dote che diventa ogni giorno più rara.

    Un sorriso e un abbraccio

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