C’eravamo amati nelle parole.
Amati è una parola importante, da calare come un asso di briscola quando si pensa d’aver vinto. Quando me lo dicesti, m’ero ricordato subito di Giacomo. Anche lui diceva d’essere innamorato ed intanto rideva. Mangiava e rideva. Se era triste, era una nube che tagliava occhi, sole e luce, ma si scioglieva e con un singulto tornava ad essere. E di nuovo rideva, parlava forte, decantava pregi e disgrazie del suo innamoramento. Ma rideva. Per questo sapevamo che non era vero. Tutti eravamo innamorati. Spesso della stessa ragazza. E lei di un’altro. Ma noi ci pativamo per dire: sono innamorato. Ci lavavamo come mai prima, facevamo cose impossibili, ma Giacomo, no. Lo considerava la tessera del club, l’ essere innamorato, il modo per dire: sono come voi. Ma si sapeva che non era vero. Solo si faceva finta. Come i bambini che coprendosi gli occhi, scompaiono. E scompaiono davvero. Per un po’ almeno. Prima di riprendere a ridere o a piangere. Era bene così. Almeno uno.
Che voragine le parole. Tu, neppure t’immaginavi dove mi perdevo. Bastava un aggettivo lasciato cadere, oppure un avverbio di troppo e già un pezzo di te s’era attaccato alla pelle. Dovrei coprirti di ricordi, anche le nudità più segrete sono pudiche, la forma d’una curva, un incavo, un suono, un buco. Tutto ha nome. Ma non era il tuo, accidenti. Tu ti riconoscevi ed io mi riconoscevo, come fossimo pupi e pupari assieme. Agiti ed attori. Le parole ci avvolgevano e ci schermavano dagli altri, lo sapevo. Non volevo ammetterlo, ma lo sapevo.
Mancava un silenzio. Il silenzio. Quello che segue la quarta ballata di Brahms. Quel suono che si smorza e finisce e incespica nel silenzio e vorrebbe proseguire, ma se ne sta vergognoso, il suono. Come le parole. Riconosce l’assoluto del silenzio. La sua purezza. Si ferma e tutti ascoltano. Non il suono, ma ciò che ha preso il suo posto. Ed io ti dicevo che questo spazio è l’amore. Poi scatta l’applauso liberatorio, perché l’amore, come ogni purezza, come ogni assoluto, non si sopporta. E già le mani sono parole, parole che battono, che percuotono l’aria. E sono felici di sentirsi, di rispettare, ma di essere loro a governare.
Le parole poi diventano altro e sono corpi che si urtano, che scivolano, percorrono, si eccitano, rafforzano in parabole, scuotono prima di piombare in cicalecci lievi come pioggia mite. Servono le parole. Servono. Ma serve anche il silenzio per capire e far capire che si ama. Questo non lo dicevo, m’accontentavo d’essere innamorato, chiedevo appena un poco in più di quello che si poteva avere: l’assoluto. Quello sarebbe venuto. Forse.
E’ bello sperare nell’assoluto, nel lampo che illumina il cielo nel giorno pieno ed oscura di luce il sole. Dalle parole si traggono auspici, ti dicevo, si può uccidere, lenire ferite che sembrano senza speranza, inzuppare lenzuola, cambiare il colore alle pareti. Per un poco. Con le parole si può far intravvedere l’amore. Lo si racconta.
Mica lo sapevo allora, ed era così bello raccontarti, dirti come ti vedevo, grattare appena una superficie e vederti com’eri. Ai miei occhi. Innamorati. Per l’appunto, innamorati. Eri un concerto. Non importa quale, nel senso che eri la musica. Jazz, classica, rock, country. Eri Bach e Marley, il Boss e i Beatles e non mi fermerei più nelle coppie che mi venivano in testa. Forse per questo ti dicevo che mi sarebbe piaciuto suonare il clarinetto, perché ero già Benny Goodman a pensarlo. Ma la musica eri tu. Dell’amore ho capito poi, ch’era inutile indagarlo, come mettere i tempi ai verbi che descrivono ciò che si prova e che si rinnova ed è nuovo, ogni volta che lo si pensa. E poi ri accade diverso e lo stesso, così che sembra sempre al presente. Ed allora che senso hanno i tempi dei verbi?
L’ amore lo sezionavo, lo indagavo e lo raccontavo. Ma ho capito poi che è inutile farlo perché l’amore non può essere utile e non assomiglia. Ti fa essere e poi basta e poi di nuovo e poi basta. Cosa c’è di utile nell’essere? Prova a pensarci, è il problema sbagliato della filosofia. L’amore è un codice binario. Non farti raccontare frottole, per il resto si può vivere come Giacomo, e ridere, mangiare e sapere che c’è. E basta. Forse l’avevamo capito che non eravamo solo innamorati, ma che c’era l’amore. Bastava attendere. E se il treno non giungeva? Non importava, il viaggiatore conosce il valore dell’attesa, è il turista che ha fretta ed orari da rispettare.
Questo vorrei dirti ora. Che t’ho circondato di silenzi per prendere il mio cuore e quei silenzi non erano vuoto, ma rispetto di Te, di me, erano l’occasione per i tuoi e i miei occhi, di ascoltare, di non dire più, ma solo sentire quello che finisce e si ripete e che non è solo parole, bocca, odore, spuma, sudore, sperma, succhi, labbra, buchi, cazzo, fica, genere, novità, sensazione, noia, ancora, di nuovo, di più. E che finisce quando ne abbiamo paura. Solo per quello.
Eppure sappiamo che esiste. Quando si è ascoltata la fine del suono, si sa che esiste.
p.s. è l’ultima sul tema e poi smetto.
Forse.

Ho letto. Il commento? Silenzio, e non smettere.
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SOLO IL SILENZIO PUO’ ESSERE DEGNO DI QUESTA LETTERA “SENZA INDIRIZZO”.
Bianca 2007
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one life,one blood, one love. alla fine di tutti questi amori uno solo ne è valso la pena . una sola vita. e un solo sangue.
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che meraviglia ragazzo
ricorda le prime volte che ti lessi
e mi spiego perchè 😉
“perché l’amore non può essere utile e non assomiglia. Ti fa essere e poi basta e poi di nuovo e poi basta. Cosa c’è di utile nell’essere?”
c’è.
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Dai spazio al Cioran che è in te. Ciao Bis. Bentornata;-)
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Grazie Willy, mi lasci senza
parole (ma non servono).
Mistral
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Troppo buona Mistral. 😉
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