Inevitabile che queste parole così parte della mia giovinezza, siano in mente. Dignità e liberazione sessuale allora, erano temi su cui si discuteva molto e riguardavano tutti, anche i farisei ed i benpensanti, coinvolgevano nella loro spinta egualitaria, prima le donne e poi maschi. Erano il paradigma dei tabù da rompere, la liberazione in cui collocare le persone, agenti/agiti, all’interno del quadro sociale. Decenza era sinonimo di dignità personale. Si leggevano Reich, Fromm, Lowen, si cercavano giustificazioni sufficienti per riconoscere che la morale pruriginosa e la repressione sessuale erano l’espressione del dominio sull’uomo. Si scopava in parità di genere, c’era ricerca del rapporto non del solo piacere. La decenza era il limite del non toccare la sensibilità/dignità dell’altro, era un nuovo costume paritario e soprattutto non cercava il consenso dei portatori di tabù, ovvero dell’autorità ecclesiastica. Certo c’erano disastri emotivi, difficoltà enormi nell’equilibrio, nel dover comunque rinunciare a qualcosa per avere rapporti alti, profondamente coinvolgenti. Troisi lo rappresenta bene nella normalità del ” ricomincio da tre”, ma adesso mi chiedo quanto distante sia quel tempo, sorta di statu nascendi dell’innocenza ritrovata, rispetto alla prevaricazione, all’uso degli altri, così ben definito dal termine di fruitore finale. Cos’abbia a che fare col sesso e con la sua forza il mito machista e giovanilista che viene proposto nelle cronache delle feste private (?) del premier. Qual’è il nesso con l’oggi? Perché la triade libertà/ decenza/dignità, è scomparsa dal lessico con significato univoco? Certamente non sotto una pressione libertaria, e neppure in nome di una nuova etica condivisa, è scomparsa sotto il più becero degli scopi, ovvero la propria soddisfazione usando il denaro e il potere. Quanto di più indecente si possa immaginare. Il primo reato da eliminare dovrebbe essere il reato di prostituzione ed inasprito quello di sfruttamento, perché il primo vende del proprio, il secondo fa mercimonio d’altri. Non mi chiedo perché la chiesa non parli, e al massimo, in ritardo, balbetti; la risposta è nella premessa: non è la schiavitù che fa paura, ma la libertà e in questa visione il potere gestisce la propria differenza, l’eccezione, il fate ciò che dico io posso fare quel che faccio. Non penso ad una età dell’innocenza di allora, non eravamo innocenti, ma c’era una tensione nel porsi domande, un de strutturare per trovare ciò che stava prima. E la decenza/ libertà era nel limite della dignità reciproca, nel sé che non usa altri.
Beh queste domande in realtà ce le facciamo ancora, cerchiamo ancora di costruirci rapporti coinvolgenti, cerchiamo ancora di scoprirci come uomini e donne, di rispettarci in quanto tali, e cerchiamo ancora di amarci, tutto questo al di là di Berlusconi, di Ruby, della Chiesa e dei tabù. Non ne parla nessuno, perché bisogna spettacolizzare tutto ed effettivamente di spettacolare tali interrogativi hanno ben poco, ma ci tormentano e non poco.
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E’ bello saperlo Faty, sentirselo ripetere. Sarebbe ancora più bello se venisse detto ad alta voce, rendesse giustizia ai giovani. Troppo spesso intesi come apatici, incapaci di rompere paradigmi, mentre un ragionamento va avanti. Le troppe domande inevase del ’68, sui sentimenti, sui nuovi legami, sullo stesso sesso sono state lasciate alla scelta individuale, c’è la coesistenza di almeno due generazioni che affrontano il tema del cambiamento in modo concorrenti. Parlo di quello sociale e dei rapporti individuali. La generazione dei padri e quella dei figli, entrambe prive di un ruolo definito. i padri che si sentono giovani, i figli che rivendicano una diversità però dipendendo. L’unica percezione che ho è che non durerà a lungo, anche per motivi fisiologici, ma che un accordo generazionale per consolidare il terreno etico servirebbe molto.
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