Il verbo giusto è cavare con il suo alone di forza arcaica e dialettale. Cosa da dentisti anziani, pensiero zen esercitato nel togliere senza fatica. E’ così che Britten estrae, dal fondo scuro del mare, il colore da portare alla luce, mentre sembra aleggi un pensiero in quest’acqua verdastra, ricca di materiali organici invisibili ai nostri occhi. Il mare pullula di vite e solo gli arroganti pensano che il colore nel fondo, nero ai nostri occhi, non serva a qualcuno.
Britten cavava con note fluide d’acqua e di vento e portava alla vista, ciò ch’ era nascosto. Cavando per l’appunto, con forza possente e continua. Immaginate i nostri occhi miopi che pensano d’essere al centro d’ogni universo. Ci accompagnano su gusci di legno e metallo, pensano che l’uso giustifichi il possesso. Ed invece ciò che ci è riservato è la capacità di meravigliarci. Così il mare, come ogni fluido, sta a mezzo e trascina, muove, mostra, indifferente, tesori cavati dal fondo. Non si cura della minaccia di alghe che si protendono verso la luce, neppure nota il tenue segno di chiglia, semplicemente sta, come questo vento che scuote alberi e pietre, e da ieri, a Trieste, riga il mare in sequenze di ricci di spuma. In porto hanno rafforzato gli ormeggi. Guardavo finchè, a bassa voce, m’hanno detto: stasera la bora vi chiuderà nelle case mentre noi balleremo con la nave. Si scuoterà la baia tra rasoiate di vento e voleranno tegole ed insegne. Torni a casa, Non è adatto a questo vento.
Ed io penso ai fluidi, ascoltando la musica del dialetto, vedo il vento e il mare, che riempiono di colore cavato dal fondo, la spiaggia dei sassi, dove d’estate si prende il sole nudi. Qui assi marrone, chiazzate di smalto blù marino, là, tra i sassi, pesci morti ed alghe verdi e rosse, ancora lucenti.
Nulla di ciò che abbiamo attorno è nostro davvero e quest’aria piena d’acqua mi ricolloca al posto assegnato. Possiamo solo vedere, meravigliarci, ascoltare, e come si riesce, raccontare, Misuro la distanza dall’estate: di marzo ancora a poco servono, pensieri e smalti d’intuizione se ciò che si racconta è assentito da ipoacusie benevole.
QUALE
ribaltamento nella musica di questo Britten che fa seguito a queste tue lucide riflessioni scavate “michelangiolescamente”!.Il primo sa del suo compito e lo vede all’orizzonte.Lo rileva come un fatto nuovo che rende si il progetto difficile ma nello stesso tempo attraente attraverso l’eterogeneità nella ricchezza di ogni voce che diventano pensieri la consapevolezza del comporre in un oggi,dove si è obbligati a interrogarsi e a decontestualizzare tutto,anche nelle più concrete implicazioni di ogni strumento intellettuale purtuttavia comprendendo cosa più radicalmente caratterizzi il nuovo mondo musicale restando indifferente al decorso cronologico d’ogni accadimento musicale spostandoli qua e là a secondo delle necessità contingenti, ai desideri di chi ascolta, interpreti e compositori inclusi,sfidando ogni tempo datato quasi a dire “Il vero senso del divenire musicale risiede proprio nella possibilità di un certo distacco da ogni sequenza lineare e irreversibile del tempo storico”.Le tue riflessioni sono fondamentalmente sullo stesso piano.Sperimentazione con un’infinita combinazione di sequenze senza un vero logos se non quello di una “sapienza spaziale” che da ordine al caos per ricrearlo in nuove ritraducibili imprevedibili forme sempre rigenerabili da un dinamismo inedito e costante.Forse sono andata fuori tema o forse ho interpretato parzialmente e in modo riduttivo le tue magnifiche quanto complicate sfide di pensiero inquieto come quel mare ma con gli occhi che vedono oltre.Interessante e di grande fascino ma…alcuanto faticoso per un comune mortale.Grazie comunque per musica visioni pensieri.Bianca 2007 e
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Nulla di ciò che abbiamo attorno è nostro. Lo abbiamo però. C’è quell’avere d’occhi. Quella meraviglia incisa nei nostri sguardi, a volte mani avide e onnivore ,altre lievi e carezzevoli, o conserte e abuliche, incapaci di prendere e di guardare giù giù nel fondo scuro…e, in certi casi, indifferenti anche alla superficie.
Potente la musica, che mi cava via da me.
Patrizia, ex Incantata ma sempre incantata.. (piacere:))
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fuori piovenevica, fa freddo, la distanza dall’estate è enorme, un’ellissi temporale senza fine.
di quello che scrivi non ti so dire…ma forse perchè dopo due ore di holden non ho più niente da dire..fino a domani 🙂
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Bello, quello che scrivi.
Leggendo, ho ricordato che imparai, quando già adulto decisi di imparare a suonare uno strumento che potessi sempre portare con me, e mi ritrovai davanti a un maestro di violino che prese il suo strumento, me lo mise sulla spalla aggiustando grezzamente la posizione, e fece lo stesso con l’archetto, e guidandomi la mano con la sua cavò – ecco, questo imparai, di termine: cavò – un re corda a vuoto per tutta l’estensione dell’archetto che mi fece vibrare il petto e tutto, le gambe quasi tremarono, la stanza intera vibrò con il suono di quel perfetto insieme di legni pregiati incollati tra loro.
Per qualche anno, ho imparato a cavare suoni da quello strumento, anche se non ho imparato a suonarlo, e lo porto con me.
Anche da, con, una quena – facilmente trasportabile ancor più del violino – ogni tanto, mi piace uscire dal silenzio cavando un suono.
Cavare.
Gracias, senor.
“Nulla di ciò che abbiamo attorno è nostro davvero”.
Avere un’esperienza a volte si trasforma in essere.
Ho guardato il mio piede là sotto il tavolo da lavoro, dopo aver letto la tua frase.
E’ mio, o sono io?
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Ho l’impressione che il tempo stratifichi l’esperienza, Rom, e che questa resti disponibile ad una sensibilità che si acuisce e che vede assieme il particolare e il contesto. Sento che il passato non pesa come un tempo e che accompagna facendo notare, un luogo,un colore,un affetto.
E’ come tu dici, ci portiamo appresso una possibilità, uno strumento che ci rassicura,una nota che fa vibrare il corpo e la mente. Resta tutto, anche il dolore, ma fa meno male.
Strano il tuo riferimento al piede e all’essere, da tempo c’è una bozza non pubblicata che parla di un mio dialogo con questa parte del corpo.
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